OGGETTIVISMO E SOGGETTIVISMO

di Ciro A. R. Abilitato

Il soggettivismo fa dipendere da atti o stati del soggetto, sia esso un individuo reale o un ente trascendente, la realtà e i valori, sicché ogni giudizio sulla realtà o i valori dipende da condizioni soggettive. In questo senso la prima forma di soggettivismo si trova in Protagora, il cui pensiero è riassunto nella nota affermazione che apre la sua opera sulla verità:

«panton crematon estin metron o anthropos»

[L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono]

Sul preciso senso di questa espressione esistono varie interpretazioni, a seconda del significato che si attribuisce ai termini “uomo” e “cose”, nonché al valore che si assegna a os (che può essere congiunz. proclitica, pronome relativo o avverbio), particella che di solito viene tradotta nel senso generico della locuzione avverbiale limitativa “in quanto, nella misura in cui”. Se infatti, sostiene Platone nel Teeteto, si assegna valore particolare ai due concetti, per cui con “uomo” si intende “ciascun uomo” e con “cose” si intendono i singoli oggetti che si percepiscono con i sensi, si ha:

“ciascun uomo è misura di ogni singola cosa”;

l’espressione può essere interpretata nel senso che le singole cose appaiono a ciascun uomo in modo diverso, a seconda degli stati d’animo, delle circostanze e dell’esperienza personale. Se invece per “uomo” si intende “gli uomini nel loro complesso”, cioè la specie umana, l’umanità, e per “cose” la realtà in generale, dando ai due concetti valore universale, allora si ha:

“l’essere umano (ossia la specie uomo) è misura della realtà”;

il senso dell’espressione sarebbe che l’umanità conosce la realtà non come essa è in se stessa, ma come essa le appare, cioè secondo un modo di conoscere propriamente umano.

D’altro canto, riguardo ad os, gli studiosi moderni si dividono in due gruppi: da una parte quelli che identificano la particella os col pronome relativo “che” (Hermann Diels, Theodor Gomperz e Heinrich Gomperz); dall’altra quelli che sembrano più inclini a identificarla con l’avverbio relativo di modo “come” (Guido Calogero e altri).

Nel primo caso il senso sarebbe:

“l’uomo è misura di tutte le cose, le quali per lui, sotto certi aspetti sono, e sotto altri aspetti non sono;

in questo modo l’esistenza delle cose verrebbe ad essere subordinata all’esperienza umana, sicché tutto ciò che per l’uomo esiste è solo ciò che della realtà egli conosce relativamente a quella che ne è la sua esperienza, le altre cose e gli altri aspetti rimanendo per lui inconosciuti e perciò inesistenti.

Nel secondo caso il senso sarebbe:

“l’uomo è misura di tutte le cose, che per lui sono come gli appaiono, mentre così non sono”;

il senso sarebbe che solo le qualità delle cose verrebbero conosciute nei modi dell’esperienza umana, mentre la loro essenza rimarrebbe inalterata e ignota.

In altre parole, l’uomo non è misura fissa e sempre uguale delle cose, ma misura soggetta alla stessa variabilità cui sono soggette le cose o, meglio, a cui sono soggetti gli aspetti esteriori delle cose. Tutte le interpretazioni date del frammento protagoreo non si contraddicono, e sembrano anzi porre in evidenza contenuti concettuali diversi perfettamente compatibili. In questo modo, la frase del filosofo di Abdera conterrebbe in sé la spiegazione dell’asserto generale secondo cui la verità è relativa al soggetto conoscente. Questa affermazione può dunque essere posta alla base del soggettivismo.

Anche la teoria della conoscenza sviluppata nell’ambito del kantismo sostiene che noi conosciamo le cose secondo un modo che è proprio della specie umana. Questa concezione è alla base del fenomenismo, secondo cui noi vediamo la realtà non come essa è, ma nel modo in cui la nostra mente ce la presenta in virtù delle forme a priori dell’intuizione (spazio e tempo) e delle funzioni unificatrici dell’intelletto (concetti puri o categorie). Pertanto, ciò che noi vediamo della realtà è solo il fenomeno, il quale non esiste che in noi, essendo la cosa in sé priva dei caratteri che la nostra mente le assegna in virtù dell’intuizione sensibile.

Senza le forme a priori dell’intuizione la mente sarebbe ridotta a pura potenzialità, come se fosse stata privata dei cinque sensi esterni e del senso interno, per cui non potrebbe in alcun modo percepire la realtà. Naturalmente, in tale condizione, essa non sarebbe in grado di riconoscere alcunché, né del mondo esterno né di quello interno, per cui, mancandole la materia da elaborare, sarebbe impossibilitata a svolgere la sua funzione, e la sua condizione sarebbe paragonabile ad un sonno senza sogni.

Senza le categorie dell’intelletto la mente sarebbe assolutamente priva della capacità di concettualizzare, cioè pur percependo la realtà esterna e interna, non saprebbe utilizzare i vari tipi di informazioni che le perverrebbero dai cinque sensi esterni e dal senso interno, sicché la condizione che si può immaginare sarebbe quella di una vita vegetativa, caratterizzata da semplice reattività corporea, automatica e incosciente.

Sensibilità, intelletto e ragione sono perciò alla base della facoltà della conoscenza.

La sensibilità è per Kant la facoltà mediante la quale gli oggetti ci sono dati attraverso i sensi in modo intuitivo (cioè immediato); essa è di natura ricettiva, cioè non genera i propri contenuti ma li accoglie, dandone una prima rappresentazione elementare che è una diretta conseguenza del modo in cui la mente è affetta dagli oggetti (soltanto la sensibilità ci fornisce intuizioni sensibili).

L’intelletto, che dipende dai sensi e opera mediante le categorie, è la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile e di pervenire ai concetti, ai giudizi (che fanno da termini medi tra intelletto e ragione e che comprendono anche i sentimenti) e ai cosiddetti principi dell’intelletto puro (anticipazioni delle percezioni, assiomi dell’intuizione sensibile, analogie dell’esperienza, postulati del pensiero empirico), per mezzo dei quali la molteplicità sensibile è ricondotta all’unità dell’appercezione (appercezione intellettiva).

La ragione, che non dipende dai sensi né dalle categorie, è la facoltà della conoscenza pura, ossia della conoscenza astratta o attività discorsiva, che trascende le condizioni dell’esperienza possibile, per cui produce idee non condizionate e di assoluta completezza, nonché principi astratti e assoluti.

Kant dice che l’intelletto è la facoltà che opera legittimamente nel campo dell’esperienza (perché è fatto proprio per operare in questo campo), mentre la ragione è la facoltà che opera illegittimamente nel campo dell’esperienza (perché è fatta per operare in un campo di ordine superiore ad essa, quantunque si intrometta nelle cose dell’intelletto).

Centro unificatore supremo di tutte le attività mentali è l’Io penso, definito da Kant appercezione pura o coscienza riflessiva, o anche autocoscienza trascendentale, di cui sono funzioni le categorie. L’Io penso, in quanto portatore dell’esperienza soggettiva, intesa sia come esperienza del mondo esterno che del mondo interno, è quella funzione superiore che può essere identificata col cogito, ossia con l’autocoscienza, e che accompagna tutte le rappresentazioni del soggetto. Contiene la psiche, ma non è la psiche, in quanto è la struttura mentale comune a tutti gli uomini, che si identifica con la mente. In pratica, Io penso = sensibilità + intelletto + ragione. Le categorie sono le dodici funzioni unificatrici in cui si concretizza l’attività sintetica dell’Io penso, il quale rende possibile l’oggettività del sapere. Talvolta è detta appercezione empirica il senso interiore o la coscienza dell’io attuale concreto con i suoi stati mutevoli, e apparcezione trascendentale la coscienza pura, originale, immutabile, che è la condizione necessaria dell’esperienza come tale e il fondamento ultimo dell’unità sintetica dell’esperienza.

Stando così le cose, la nostra conoscenza può al massimo spingersi al fenomeno, oltre il quale la cosa in sé, privata della dimensione spazio-temporale, rimane inconoscibile (perciò, la dimensione spazio-temporale non sarebbe per Kant oggettiva, ma soggettiva, nel senso che essa o sarebbe propria soltanto della mente umana, oppure la dimensione spazio-temporale della mente umana sarebbe diversa da quella della realtà in sé). Infatti, la cosa in sé non può divenire oggetto di un’esperienza possibile, ma solo di un’intuizione non sensibile, cioè di una conoscenza extra-fenomenica che a noi è preclusa, e che potrebbe essere propria solo di un ipotetico intelletto divino dotato di intuizione intellettuale delle cose. Se dunque il fenomeno è apparenza sensibile, la cosa in sé è noumeno, vale a dire intelligibile puro, realtà ipotizzabile ma non sperimentabile. Pertanto, in senso positivo, il noumeno è per Kant l’oggetto di una intuizione intellettuale (intuizione non sensibile), mentre in senso negativo è ciò che non può essere oggetto di un’intuizione sensibile (ma solo di un’intuizione intellettuale). In quest’ultimo senso esso viene a corrispondere ad una incognita, vale a dire a un concetto-limite, consistente nella consapevolezza di una realtà che non possiamo conoscere. Questo non significa che il fenomeno sia una realtà ingannevole o illusoria, perché esso ha una sua specifica oggettività dovuta al suo carattere necessario e universale. In altre parole, per tutti gli intelletti conformati come il nostro, la realtà è così come noi la vediamo (umanismo). Di conseguenza, per ogni uomo la conoscenza oggettiva consiste nella spiegazione razionale del fenomeno, mentre la soggettività consiste nell’attività e nei contenuti della singola coscienza in relazione a quella che è la sua personale esperienza del mondo.

Anche l’idealismo assoluto, nonostante i tentativi per uscirne, rimane soggettivismo. Naturalmente, può esserci un soggettivismo estetico, che fa dipendere la valutazione dei valori artistici dal gusto personale, e un soggettivismo religioso, che riduce la religione a sentimento religioso, cioè a stato d’animo e a valutazione soggettiva della realtà sulla base di una forma di intuizione trascendentale. Premesso ciò, le teorie soggettivistiche affermano in generale che i cosiddetti giudizi etici, come per esempio “rubare è sbagliato”, non possono essere né veri né falsi, e che nel caso siano riconosciuti veri o falsi, ciò riguarda sempre e solo la psicologia della persona che li esprime. Sono soggettivistiche in campo morale le posizioni di Nietzsche, Santayana e Russell. La teoria morale di Hobbes è solitamente considerata soggettivistica, perché sostiene che un giudizio come “questo è buono” può essere reinterpretato nel senso di “Io desidero e intendo ottenere questo”. Sotto tale aspetto, il giudizio etico è soggettivo, in quanto fondato su desideri, inclinazioni, sensazioni e sentimenti che sono propri di una persona in un dato momento e in una data circostanza, e che velati dalla forma verbale del giudizio, sono alla base di comportamenti e scelte individuali. Anche la teoria morale di Kant è soggettivistica, perché i giudizi etici rispondono a principi soggettivamente percepiti come comandi, e i comandi non possono essere né veri né falsi: non ha infatti alcun senso dire che “Attenti!” sia vero o falso. Il soggettivismo etico trova la sua più tipica espressione nella dottrina del finlandese Edward Alexander Westermarck, secondo cui i giudizi morali sono connessi al sentimento soggettivo di approvazione e disapprovazione (The Origin and Development of the Moral Ideas, 1920).

Diversamente dal soggettivismo, l’oggettivismo attribuisce importanza decisiva alla realtà, la quale non può essere diversa da come si presenta ad un soggetto conoscente. Infatti, nella misura in cui è conosciuta, la realtà si mostra per quel che è. La conoscenza dei suoi aspetti più nascosti, ossia dei suoi diversi livelli organizzativi, ci consente una visione migliore e nuova delle cose, ma mai così radicale da dover rigettare tutto il precedente su cui la conoscenza ha avanzato. La nostra rappresentazione della realtà non è perciò in sé sbagliata o falsa, ma solo incompleta, dal momento che la conoscenza è un processo graduale mai in sé concluso. In questo processo, ciò che è conoscenza vera, vale a dire conoscenza provata per mezzo dell’esperienza, costituisce la base per ulteriori progressi, e poiché la conoscenza vera è conoscenza oggettiva e verificabile, ogni distorsione può essere corretta grazie ad ulteriori progressi. Non ci sarebbe conoscenza vera se ciascuno vedesse le cose a suo modo, senza possibilità di distinguere l’oggettivo dal soggettivo, il vero dall’apparente. Pertanto, solo la distorsione, soggettiva o collettiva, della realtà produce l’illusorio, il fittizio, l’apparente. Tuttavia, come scrive Aristotele nella Retorica: “Gli uomini sono sufficientemente dotati per il vero e raggiungono per lo più la verità”. Questa affermazione è meglio chiarita nella Metafisica, dove Aristotele dice che “la ricerca della verità, sotto un certo aspetto è difficile, e sotto un altro facile: difficile perché è impossibile coglierla del tutto (cioè tutta intera e definitivamente), ma altresì facile, perché è altrettanto impossibile non coglierla affatto”.

Nel soggettivismo la conoscenza della realtà dipende da come la mente la percepisce, ed è una conoscenza interamente affidata alla coerenza logica. Per il resto, al di là del fenomeno, che è il modo in cui noi vediamo la realtà, questa è qualcosa di inconoscibile. Non esiste quindi un’oggettività assoluta, ma solo un’oggettività relativa all’uomo. I principi universali sono assoluti solo relativamente ai fenomeni. Ciò nondimeno, poiché anche la mente è realtà, la mente pure è in se stessa inconoscibile al di là del suo aspetto fenomenico. Ciò giustifica l’intuizione trascendentale, che è un percepire indistinto la realtà in sé, un avvertire qualcosa che sta dietro il fenomeno.

Nell’oggettivismo la mente è un oggetto della realtà come gli altri, e le leggi che la governano sono le stesse di quelle che regolano l’intera realtà, per cui la realtà stessa è il banco di prova della conoscenza. Di conseguenza, la mente vede la realtà così com’è, e poiché la conoscenza di essa è un processo graduale, la nostra rappresentazione della realtà non è in sé falsa, ma solo incompleta. I principi fondamentali della realtà ai quali si perviene attraverso la conoscenza sono effettivamente leggi della natura. L’intuizione è solo un modo della creatività, un rinvenire relazioni nuove attraverso percorsi logici originali che anticipano quanto sarà provato per via sperimentale.

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