Ciro A. R. Abilitato
già pubblicato in questo sito il 26-05-2011
IL MITO DI DIONISO
Diòniso, dio greco della forza vitale, del vino e del delirio mistico, è una divinità complessa a causa degli elementi traci ed orientali confluiti nella sua figura. Identificato dai Romani col vecchio dio italico Liber Pater, fu anche chiamato Bacco, ma solo in parte corrisponde al dio Bacco dei Romani.
Lo si diceva figlio di Zeus e di Sèmele, la quale era una delle figlie di Cadmo e Armonìa. Diòniso appartiene perciò alla seconda generazione degli Olimpici, come Ermes, Apollo, Artemide e così via.
Si narra che Èra, stanca degli amori adulterini di Zeus, assunse le sembianze di Bèroe, la vecchia nutrice di Sèmele, e così camuffata si presentasse alla giovane, consigliandole di chiedere al suo amante di mostrarsi a lei in tutto il suo fulgore. L’incauta fanciulla seguì il consiglio della falsa Bèroe, e così Zeus, avendo imprudentemente promesso alla donna che avrebbe accondisceso a qualsiasi sua richiesta, si vide costretto ad esaudirla. Le conseguenze furono fatali, perché Sèmele, alla vista del re degli dèi in tutta la sua tremenda potenza, stramazzò al suolo, folgorata dai dardi infuocati che da lui si sprigionarono. Poiché la giovane era incinta, Zeus si affrettò a strapparle il bimbo dal grembo, che era soltanto al sesto mese, e se lo cucì subito in una coscia, tenendovelo fino al compimento dei nove mesi, allo scadere dei quali Dioniso venne fuori dalla coscia del padre vivo e perfettamente formato. Così, secondo la leggenda, Dioniso era il dio nato due volte, il figlio due-volte-nato di Zeus. Orfano della madre, Zeus lo affidò ad Ermes, che lo consegnò al re di Orcòmeno, Atamànte, e alla sua seconda moglie Ino, affinché lo allevassero, prescrivendo loro di travestirlo da fanciulla per sottrarlo alla vendetta di Èra. Questa infatti, volendo a tutti i costi la morte del frutto della relazione axtraconiugale del marito, non si lasciò ingannare dai depistaggi di Zeus e fece impazzire sia la nutrice di Dioniso, Ino, che il coniuge, Atamànte.
Zeus trasportò allora il fanciullo lontano dalla Grecia, su un monte all’interno di un misterioso paese chiamato Nisa, che alcuni situano in Asia ed altri in Etiopia o in Africa (e che forse è l’Arabia), affidandolo alle cure delle ninfe del luogo. Questa volta, per evitare che Èra lo riconoscesse, trasformò il fanciullo in capretto. L’episodio spiega sia l’epiteto di Èrifo, cioè di “capretto”, attribuito a Dioniso nelle cerimonie sacre, sia, secondo alcuni, l’etimologia del nome come dio di Nisa. Ad ogni modo Dioniso venne allevato dalle ninfe nei boschi del monte Nisa, dove crebbe sano e spensierato, e quando fu cresciuto, le sue tutrici, per gratitudine di Zeus, furono mutate nelle stelle della costellazione del Toro note col nome di Ìadi.
Il mito di Dioniso è ricchissimo di interpretazioni e di sviluppi, con aneddoti spesso contraddittori, anche per le sue interferenze col dio egiziano Osiride, con cui fu identificato in epoca tolemaica. Si narra che divenuto adulto, Dioniso scoprì la vite e l’uso dell’uva. A lui è perciò attribuita la diffusione tra i popoli della viticoltura, della vendemmia e delle tecniche di produzione del vino.
Stando alla tradizione, dopo essere stato allevato dalle ninfe del monte Nisa, Èra, che sempre lo cercava, lo scovò e lo fece uscire di senno. In preda alla follia il dio errò attraverso l’Egitto e la Siria, e con un folto seguito di fedeli risalì le coste dell’Asia fino a giungere in Frigia, dove fu accolto affettuosamente dalla dea Cibèle, che lo purificò e lo fece rinsavire, iniziandolo ai riti del suo culto.
Liberato dunque dalla pazzia, e in virtù tanto di questa guarigione quanto degli insegnamenti di Cibele divenuto più potente, Dioniso raggiunse la Tracia, dove fu ricevuto assai male dal re Licurgo, che regnava sulle rive dello Strimòne. Il re cercò infatti di imprigionare il dio, ma non vi riuscì, poiché Dioniso si era messo in salvo presso la nereide Tèti (o Tètide), che gli dette asilo in mare. Le Mènadi, che erano al suo seguito, furono invece catturate, ma Dioniso fece sì che fossero miracolosamente liberate, e per vendicarsi privò Licurgo della vista e lo fece impazzire.
Perso il lume della ragione, un giorno il re si scagliò con rabbia contro la vite, e credendo di abbattere la pianta sacra a Dioniso, si tagliò una gamba, troncando anche le estremità del figlio che lo aiutava. Ritornato in sé, si accorse che non solo la vite era rinsecchita, ma che il suo paese era colpito dalla siccità. L’oracolo, interrogato, rivelò che la collera di Dioniso si sarebbe placata solo con la morte di Licurgo. I sudditi, allora, attaccarono il loro re a quattro cavalli, che spronati in opposte direzioni lo squartarono.
Si dice che Diòniso fosse stato avvertito in principio delle cattive intenzioni di Licurgo da un trace di nome Càrope, il quale, come ricompensa, fu messo al posto dell’inospitale re sul trono della Tracia e iniziato dal dio ai suoi misteri. Càrope è padre di Eàgro, e perciò nonno di Orfèo. Fu lui a trasmettere ai discendenti la religione dionisiaca.
Dioniso si pose poi alla testa di un esercito ben agguerrito, e sempre seguito da un folto stulo di seguaci, dalla Tracia marciò verso l’India, che conquistò alla sua fede con le virtù magiche, la potenza mistica e la forza delle armi. Quando in quella terra fu ovunque diffuso il suo culto, egli ne ritornò alla testa di una folla sterminata di seguaci e di un corteo trionfale detto tìaso.
Ritornato in Grecia, Dioniso raggiunse la Beozia, paese d’origine della madre, e si diresse a Tebe, dove suo nonno Cadmo, il fondatore della città, ormai avanti negli anni, aveva ceduto il regno al nipote Pentèo, nato dal matrimonio della figlia Àgave con Echióne. Qui Dioniso introdusse i Misteri dionisiaci istituendo i Baccanali, feste orgiastiche durante le quali l’intero popolo, preso da sacro furore, si abbandonava a danze frenetiche e percorreva le campagne in preda a un delirio mistico. Nel corso delle cerimonie i devoti si mettevano all’inseguimento di animali selvatici che poi facevano a pezzi, dividendosi fra loro le carni crude per cibarsene e vestendosi con le pelli ancora fresche strappate alle loro prede.
L’opposizione di Pentèo all’introduzione di riti così orribili e pericolosi offrì a Dioniso l’occasione non solo di punirlo in modo esemplare, ma anche di vendicarsi di una vecchia offesa ricevuta da sua zia Àgave prima ancora che egli venisse al mondo. Infatti, quando sua madre Sèmele morì fulminata per aver visto il re degli dèi in tutta la sua gloria, Agave si era messa a dire che Zeus aveva voluto punire la sua amante perché ella gli aveva detto di portare in grembo un figlio generato con lui, mentre quel figlio era certamente il frutto degli amori di lei con un mortale qualsiasi. Pertanto, a dire di Àgave, Dioniso non era il figlio di Zeus. Memore di questa calunnia, Dioniso comandò a tutte le donne tebane di recarsi sul Citeróne e di celebrare lì i suoi misteri. Suo cugino Pentéo, preso da premura per la madre, si avventurò anch’egli di nascosto sulle boscose pendici del monte, intenzionato a spiare le cerimonie delle Baccanti. Fu però scoperto e inseguito dalle donne invasate. Sua madre, che si trovava fra di loro, e a cui il dio aveva offuscato la mente gettandola in preda ad un vero e proprio delirio, scambiandolo per un animale feroce o un cinghiale, lo squartò con le sue stesse mani e lo sbranò senza misericordia. Quando ritornò in sé, Agave, spaventata, fuggì da Tebe fino in Illiria, dove fu accolta dal re del paese Licotèrse, che poi la sposò. Qualche tempo dopo Agave uccise però anche lui con l’intenzione di dare il regno al proprio padre Cadmo.
Successivamente Dioniso si recò ad Argo (detta anche Tirìnto), dove manifestò la sua potenza in modo analogo, in quanto le figlie del re Prèto non volevano accettare il suo culto. Egli allora fece impazzire le Prètidi e le donne del paese, che credendo di essere giovenche, percorsero la campagna emettendo muggiti e giungendo a un tal grado di esaltazione da divorare i loro stessi poppanti.
Volendo poi raggiungere l’isola di Nasso, Dioniso noleggiò i servigi di alcuni pirati tirreni, pregandoli di prenderlo sulla loro nave per passare in quell’isola.
I pirati accettarono e lo presero a bordo, ma invece di dirigersi alla volta di Nasso, fecero rotta per l’Asia Minore, intenzionati a venderlo come schiavo. Fatto scalo per rifornimenti a Chio, colsero l’occasione per mettere in pratica il loro piano, e prima di rimettersi in viaggio, catturarono Dioniso, che nel frattempo li aspettava sulla spiaggia dell’isola e dormiva. Quando Dioniso si svegliò e si accorse di essere stato legato, rivelò ai pirati la sua natura divina compiendo grandi prodigi: i loro remi si trasformarono in serpenti, tutta la nave fu invasa dall’edera, dappertutto risuonò la musica assordante di flauti invisibili, la nave stessa venne paralizzata con ghirlande di vite e si fermò in mezzo al mare con gli stralli, le sàrtie, le vele e gli alberi tutti trasformati in viti, mentre il dio appariva ai suoi sequestratori in tutto il suo fulgore e in tutta la sua tremenda potenza, incoronato d’edra e circondato da tigri e pantere. I pirati allora ebbero terrore e impazzirono, e per sottrarsi a quei prodigi si gettarono in mare, ma al contatto con l’acqua si trasformarono in delfini. Ciò spiega come i delfini, essendo i pirati pentiti della leggenda di Dioniso, siano amici degli uomini ed accorrano a salvarli nei naufragi. Si diceva che solo Acèste, il pilota della nave, poté sfuggire alla punizione, in quanto era stato l’unico a proteggere il giovane dio dai maltrattamenti dei compagni.
La potenza di Dioniso fu in tal modo riconosciuta e accettata presso tutti i popoli del mondo antico, sicché il dio, avendo stabilito dappertutto il suo culto, poté ritenere compiuta la sua missione sulla terra. Tuttavia, prima di salirsene in Cielo, volle scendere agli Inferi a cercare l’ombra della madre Sèmele, per restituirla alla vita. Si diresse così in Argolide, dove si trovava un’immensa palude senza fondo chiamata lago di Lerna, che si diceva essere l’accesso più diretto al mondo infernale. Ma dato che non conosceva la strada, Dioniso dovette informarsi presso un tizio chiamato Prosìnno (o Pòlinno). Questi, interrogato, gli dette le indicazioni richieste, ma desiderò una certa ricompensa, che Dioniso promise di rendergli al ritorno dal suo viaggio. Giunto nel regno dei morti, Dioniso chiese ad Ade di rilasciare sua madre. La richiesta fu accolta, a patto che egli avesse lasciato in cambio qualcosa che gli fosse molto caro. Dioniso cercò fra le sue piante favorite e offrì al dio degli Inferi il mirto. Da ciò ebbe origine l’usanza degli iniziati ai misteri dionisiaci di coronarsi la fronte con tralci di mortella. Sèmele, ritrovata da Diòniso, fu resuscitata e condotta in cielo, dove le fu dato il nome di Tióne. Quando Dioniso risalì dagli Inferi, cercò Pròsinno per adempiere alla sua promessa e ricompensarlo come egli aveva desiderato, ma non poté farlo, perché frattanto Prosìnno era morto. Cercò tuttavia di mantenere la parola data servendosi di un bastone di legno di fico che intagliò a forma di fallo e che piantò sulla tomba di Prosìnno; poi, dando corso ad un rito, si concesse sulla stessa sepoltura ad un simulacro che impersonava il defunto. Questa leggenda oscena spiega la parte avuta dal fallo nella religione di Dioniso.
Salito al cielo per occupare il posto che gli spettava fra gli altri dèi dell’Olimpo, Dioniso prese parte alla Gigantomachìa, uccidendo Eurìto con un colpo di tirso. In quanto all’incontro e al matrimonio con Arianna, la versione più comune colloca l’episodio nel corso del viaggio di ritorno dall’India, mentre un’altra lo situa posteriormente all’ascesa del dio al Cielo. Ad ogni modo, Dioniso rapì Arianna a Nasso, la quale era stata lì abbandonata da Tesèo durante la fuga da Creta. Il dio portò la giovane con sé sull’Olimpo e si unì in matrimonio con lei, ottenendo da Zeus che la sua sposa fosse resa immortale.
Una variante làcone della leggenda della nascita di Dioniso vuole che Sèmele abbia partorito normalmente il dio a Tèbe, in Beòzia, e che il re Cadmo, per liberarsi di entrambi, avesse rinchiuso il bambino e la madre in un cofano, che poi gettò in mare. Il cofano, trasportato dalle correnti, sarebbe stato depositato dai flutti su una spiaggia della Lacònia, dove Sèmele, che nel frattempo era morta, fu sepolta, mentre gli abitanti della regione si presero cura del dio e lo allevarono.
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ASPETTI PARTICOLARI DEL CULTO DI DIONISO
Diònisos, dio greco della forza vitale, del vino e del delirio mistico, detto più tardi Bakchos o Iakchos, è una divinità molto complessa che riunisce in sé i caratteri di Pan, di Ermes e i suoi propri, i quali ultimi sembra si siano originati non già in Grecia, ma a Creta, prima dell’età micenea. Divenne poi un dio della Tracia, regione ancora più primitiva dell’Arcadia, tanto che i suoi abitanti venivano considerati barbari dagli altri Greci. Veniva rappresentato sotto forma di erma, cioè di un pilastro quadrato terminante superiormente con una testa o una maschera barbuta. Di lui si diceva che era nato due volte, da Sèmele e dalla coscia di Zeus, e che postosi alla testa di un esercito aveva condotto una crociata in India, la quale fu da lui conquistata con le armi e la fede. In quella terra venne così diffuso il suo culto ed egli ne ritornò alla testa di una folla sterminata di seguaci e di un corteo trionfale, il tìaso, nel quale appariva assiso su un carro trainato da buoi giganteschi e da pantere, incoronato di edera e di pampini. Il carro era preceduto e seguito da Mènadi, Sàtiri, Silèni, Egìpani, Centàuri ed altre divinità minori, tra le quali una piuttosto sui generis a causa di una indicibile deformità: un certo Priàpo, preso a Làmpsaco, un’antica città fondata dai Focesi sulla riva asiatica dell’Ellesponto.
Il culto di Dioniso, con i suoi misteri di natura estatica e orgiastica, conservava forti elementi orientali ed era caratterizzato da rituali in parte cruenti, come quello di sbranare gli animali selvatici ancora vivi, di farli a pezzi e di mangiarli crudi, nonché di coprirsi con le loro pelli ancora fresche. Si credeva che mangiare la vittima senza prima ucciderla consentisse il passaggio del suo elemento vitale nel corpo del devoto, mentre la divisione rituale delle carni doveva essere un’allusione al carattere magnanimo del dio quale dispensatore di vita. Nelle Baccanti, Euripide descrive quale dovesse essere il senso dei rituali praticati dalle Mènadi, il cui coro, invocando Bròmio in un’atmosfera di poesia e di esaltazione, magnifica il supremo piacere di smembrare un animale selvatico e di mangiarlo subito crudo:
Dolce tra i monti correr nel Tìaso
cinte del sacro vello di daino,
e al suol cadere, correndo sulla traccia
del capro, e ucciderlo, e fumante berne
il sangue; ai monti lidi lanciandosi
ed ai frigi, da Bromio guidate,
che per primo il grido leva: Evoè!
Bròmio, “il rumoroso”, era un altro dei molti nomi di Diòniso, così chiamato a causa del baccano che caratterizzava le feste orgiastiche del suo culto.
La danza delle Mènadi sul brullo crinale d’una montagna non era però solo la ripetizione meccanica di un primitivo rituale sacro. Essa, infatti, doveva avere un carattere eminentemente partecipativo e liberatorio, e configurarsi come un’occasione senza pari di momentanea evasione dai legami e dalle incombenze della vita ordinaria, come una fuga dagli aspetti oppressivi della civiltà e un rifugio nel mondo dell’emozione, della bellezza extraumana, della libertà del vento e delle stelle. Non a caso, in Euripide, in tono molto meno esaltato, le stesse Menadi cantano:
Torneranno mai più a me
le lunghe, lunghe danze
durante la notte, fino allo svanire delle stelle?
Sentirò ancora la rugiada sulla gola e lo scorrere
del vento nei miei capelli? E i miei piedi riluceranno
ancora nelle buie distese?
O piedi del cerbiatto fuggito nel verde bosco,
che solo corri nell’erba e nell’incanto;
o balzo del fuggiasco non più impaurito,
che al di là delle trappole e del premere mortale ti spingi,
una voce ancora risuona in distanza:
Una voce, una paura, e una fretta di cani.
O ferocemente rapidi, pazzamente sfiancanti,
in avanti correte attraversando fiumi e radure.
È gioia o terrore, o piedi svelti come la tempesta?
Correte, correte verso le care terre solitarie,
dall’uomo indisturbate, ove voce alcuna
non suona, e fra l’ombroso verde
dove i piccoli esseri del bosco vivono non visti.
I culti dionisiaci ebbero sempre un carattere popolare e popolareggiante con forti connotazioni di femminismo. La personalità femminile permeava infatti ogni aspetto del culto; la partecipazione delle donne alle funzioni religiose ne era un aspetto importante: certi uffici erano riservati esclusivamente ad esse, così come certe pratiche rituali. Rispettabili matrone, ragazze, popolane, e perciò donne senza distinzione di età e di ceto, si riunivano su brulle colline e vi trascorrevano in folte schiere notti intere in danze che stimolavano l’estasi e in un’ebbrezza mistica indotta, almeno in parte, dall’alcol. Gli uomini, in particolare i mariti, trovavano talvolta queste pratiche moleste e ne erano irritati perché vi erano totalmente esclusi, ma non osavano contrastarle, giacché opporvisi avrebbe significato mettersi contro le usanze e la religione. Le baccanti procedevano in disordinato corteo abbandonandosi a danze frenetiche, agitando i tirsi, suonando cembali, timpani e lanciando grida rituali. Spesso, all’urlo “Peana!” o “Evoè!”, simulavano l’inseguimento del dio-preda, che una volta raggiunto veniva simbolicamente fatto a pezzi e mangiato.
Il femminismo religioso si accompagnava ad altri aspetti del culto che erano di pura virilità maschile, come ad esempio le cerimonie itifalliche delle falloforie. L’elemento femminino aveva anch’esso un’importanza notevole, in quanto il dio, nella sua perfezione, non era un essere asessuato, e nemmeno bisessuato, ma un essere di sesso ben definito, cioè maschio, in quanto dio fecondatore. Bacco era anche chiamato Fallène o Fallèno, e tuttavia la sua natura si delineava come polierotica, a significare che la distinzione dei sessi non esclude il carattere universale e polivalente dell’amore e del trasporto erotico. Il dio, infatti, come generatore di vita, era anche la forza vitale che produce l’attrazione e l’unione dei sessi. Per questo motivo le falloforie erano caratterizzate da una numerosa partecipazione di thēleìai (effeminati), di panàbroi (“tuttimolli”), travestiti e sardanapali (omaccioni effeminati). I phallophòroi o phallogòghi non erano solo coloro che avevano il compito di portare a spalla il fallòbate, ma anche gli uomini e le donne che lo seguivano e lo precedevano recando un fallo di legno di fico o di cuoio. Costoro formavano insieme al resto del popolo la phallagòghia, ossia la processione al seguito dell’itifallo. Un altro elemento dionisiaco era la processione con i serpenti, che conosciamo dalle raffigurazioni su alcuni vasi greci, oltre che dalla tradizione; essa era un altro dei pezzi forti che i dionisiasti amavano presentare in occasione delle festività religiose. La liturgia ripercorreva l’intera vita del dio con rappresentazioni drammatiche che via via assunsero la forma della commedia, della tragedia e della satira. Tutto avveniva come in un tipico carnevale tradizionale italiano, con maschere e processioni di carri, ma non era un semplice spettacolo.
Bakcheìa era la festa di Bacco, e anche il furore bacchico, la frenesia, la divina follia provocata dal vino nel corso dell’òrghia, ossia del culto misterioso, della cerimonia misterica: un vero e proprio sacramento per i fedeli, in quanto si credeva che il rituale fosse capace sia di purificare l’anima del credente, mettendola nella condizione di sfuggire al meccanismo oppressivo della vita, sia di far circolare l’energia vitale e sacra che è alla base della ciclicità naturale. Il dio, del quale non si è mai potuto sapere se avesse le sembianze di un uomo, di un capro o di un toro, provocava la fertilità, e questa era a sua volta associata non solo alla vita animale, ma anche alla vita delle piante e soprattutto alla coltivazione della vite, insegnata dal dio stesso ancora prima che Demetra introducesse fra i popoli la coltivazione del grano e l’agricoltura.
La religione di Dioniso aveva significati reconditi ed era connessa con la fertilità della terra. Dall’uva si otteneva la prima bevanda fermentata che il dio aveva fatto conoscere agli uomini. Dioniso avrebbe anche scoperto l’uso del miele, il quale sarebbe stato per la prima volta da lui impiegato come catalizzatore della fermentazione nel processo di vinificazione dei mosti. Le cerimonie avevano un elevato carattere liberatorio, perché gli adoratori entravano in uno stato di eccitazione e di esaltazione cui seguiva un trasporto verso il dio e un rapimento estatico. La coscienza appariva dilatata, e in questo stato si giungeva fino alla trance, caratterizzata dal manifestarsi di capacità medianiche in virtù dell’entusìa, cioè dell’ispirazione divina. La normale assennatezza era messa in scacco nell’adoratore dalla forte passione che in lui si generava, sicché egli ritrovava nell’ebbrezza fisica e spirituale un’intensità di sensazioni e di emozioni impossibile nella vita normale: la forza lo riempiva, i dolori sparivano, il mondo era sentito come pieno di piacere e di bellezza, e la mente si liberava di colpo dalla prigione dei divieti e delle preoccupazioni. La Bakcheìa, il rituale bacchico, produceva il cosiddetto entusiasmós, che etimologicamente significa “sono preso da entus”, cioè “sono tratto da divina ispirazione”, “sono pieno di divino impeto”: è la condizione dell’essere invaso dalla divinità, del venire ad essere in completo possesso del dio. Si ha così l’ingresso del dio nel suo adoratore, il quale diviene una sola cosa con lui. In questa fase l’invasato è preso dall’estro, che lo conduce fino all’orgasmós, parola che potrebbe essere resa con “risucchio estatico nel sacro vortice della vita” e anche “accoglimento mistico del sacro turbine della vita”. Il culmine dell’unione si aveva quando nell’adoratore avveniva la fusione delle due nature maschile e femminile catalizzata dalla presenza in lui del dio: il devoto diveniva allora per breve tempo partecipe del Tutto, e in questo stato era contemporaneamente maschio e femmina, androgynos, ermafrodito, realtà doppia: era l’essere completo, indiviso. Ma si andava oltre, giacché questo non era ancora lo stadio perfetto, il quale consisteva nella percezione dell’unità indistinta dell’essere e del sacro Arcano Cosmico. All’unione mistica seguiva poi uno stato di spossatezza e quindi il sonno. Così infatti finivano le cerimonie bacchiche, sicché l’alba coglieva tutti sprofondati in un sonno profondo e nell’indicibile confusione lasciata dallo zigurnale; insomma, qualcosa di molto simile a ciò che accade oggi dopo una notte passata in discoteca.
In epoca romana, e fin dal II secolo prima della nostra era, i Misteri di Dioniso, con la loro licenziosità e il loro carattere orgiastico, penetrarono in Italia, dove trovarono una terra d’elezione fra le popolazioni montane, ancora poco incivilite, delle regioni centromeridionali della penisola e in Sicilia. Qui, infatti, si diffusero rapidamente, dando luogo alla formazione di associazioni religiose e di confraternite che praticavano cerimonie segrete; associazioni che assunsero una caratteristica nuova rispetto alla tradizione ellenica, configurandosi come delle vere e proprie chiese o parrocchie, cioè come comunità religiose a cui chiunque, senza distinzione di razza, ceto e sesso, poteva essere ammesso per iniziazione. Vi si praticavano i culti misterici della fecondità, che non erano orge sessuali come noi le intendiamo, ma cerimonie religiose durante le quali venivano praticati rituali catartici per la purificazione dalle passioni. Nell’ambito di queste dottrine misteriosofiche, la rivelazione cominciò ad essere considerata come l’origine e il fondamento dell’autorità religiosa. Poiché queste pratiche si discostavano dalla religione di Stato, non furono più tollerate dal Senato romano, che nel 186 a.C., sostenendo che esse venivano sempre più degenerando in licenziose manifestazioni, proibì la celebrazione dei Baccanali con un apposito provvedimento, il Senatusconsultum de Bacchanalibus, il cui testo è pervenuto a noi attraverso una delle più antiche iscrizioni in lingua latina. Tuttavia le sette mistiche, anche dopo la riforma orfica, conservarono molti aspetti della tradizione dionisiaca. Il culto dionisiaco fu riammesso a Roma da Cesare, che dedicò a Bacco un tempio sull’isola Tiberina, ed ebbe ancora larga diffusione in epoca imperiale.
La festa di Piedigrotta, a Napoli, era particolarmente ricca di connotazioni dionisiache, opportunamente mascherate sotto il complesso delle forme e dei simboli della tradizione cristiana. Ciò accade ancora in molte parti dell’Italia centro-meridionale, in occasione di feste religiose e cerimonie nel corso delle quali i devoti, in particolare quelli appartenenti ad associazioni e congregazioni storiche, manifestano comportamenti singolari, ma chiarissimi nel loro significato recondito. Ne sono esempio certi rituali propiziatori e apotropaici praticati in Puglia, sul Gargano, e in Abruzzo. In quest’ultima regione è nota in particolare Cocullo, cittadina adagiata su un dosso del monte Luparo (Lykeios), dove il primo giovedì di maggio, in occasione della festa di S. Domenico, i serpari procedono in processione portando rettili attorcigliati alle braccia e al collo. Comportamenti molto particolari si possono ancora osservare a Montevergine (l’antico Partènio), in provincia di Avellino, o, spostandoci nella provincia di Napoli, a Sant’Anastasìa, dove in occasione della Pasqua un’importante festa tradizionale si svolge presso il santuario della Madonna dell’Arco; e così fino ad arrivare a Nola e a Barra con la loro festa dei Gigli. Ma non si dimentichi la stessa festa di S. Gennaro, a Napoli, il 19 settembre. In tutte queste manifestazioni di folklore, dove il sacro si mescola ad aspetti non meno sacri della religiosità popolare, ma più remoti, nemmeno gli stessi devoti sono coscienti del significato delle loro azioni e dei loro comportamenti rituali, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Il procedere carponi per lunghi tratti o il procedere a piedi nudi, o sulle ginocchia con le braccia alzate, o recando grossi pesi, o correndo senza mai fermarsi, così come lo strapparsi i capelli delle donne e l’agitarsi frenetico dei cosiddetti indemoniati e dei tarantolati, non sono semplici comportamenti di devozione cristiana, ma rituali antichissimi che si sono perpetuati nel tempo, anche dopo che l’orfismo ebbe riformato la religione di Dioniso inglobando tutto il suo simbolismo per portarlo su di un piano più astratto con l’elaborazione di una vera e propria teologia.
Antichi riti della fecondità si svolgevano ancora nell’Italia meridionale fino alla prima metà del XX secolo. Le cerimonie erano segrete e riservate ai soli affiliati. Una di queste è citata nel romanzo La pelle (1950) di Curzio Suckert, più noto con lo pseudonimo di Curzio Malaparte, che fu portato in pellicola da Liliana Cavani nel 1981. Il rito è quello della Figliata de’ femminielle a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Durante la cerimonia, tra suoni di tamburi saraceni e danze, un femminello disteso su un lettino simula in tutti i particolari un parto. Il travaglio, lungo e doloroso, è accompagnato dalle grida e dai piagnistei delle comari, dette “le parenti”, che si portano le mani alle guance prendendosi a schiaffi, come una volta facevano le prefiche alle veglie funebri, e intonando un antico lamento rituale rotto dal pianto e dagli improperi. Alla fine il partoriente dà alla luce una bambola, che è il simbolo del doppio o rebis, ovvero dell’ermafrodito. Allora le parenti smettono improvvisamente di lamentarsi, e alzandosi dalle sedie, si agitano, gridano, danzano e cantano alla maniera del noto attore napoletano Beppe Barra nella Gatta Cenerentola, dando così inizio ai festeggiamenti. Con il rito iniziatico della Figliata, il femminello veniva accolto nella comunità degli omosessuali e dei transessuali. Roberto de Simone ripropose negli anni ottanta, in un suo lavoro teatrale, la Tarantella cumplicata, un rito orgiastico che si fa risalire alla tarda romanità e che viene associato ad antichissime cerimonie praticate nella Grotta di Pozzuoli, nei pressi della quale un tempo esisteva, forse proprio sotto l’attuale chiesa, un’antica edicola dedicata a Priàpo. Bisogna comunque precisare che tutte queste eclatanti manifestazioni del paganesimo precristiano non costituivano che l’aspetto popolare della religiosità antica, proprio come oggi si può osservare durante una qualsiasi festa di piazza in occasione di una festività religiosa o, se vogliamo rendere meglio l’idea, in occasione di concerti di cantanti famosi. Difatti, alle manifestazioni connesse con i culti dionisiaci ed orfici, faceva riscontro una teologia misterica ed esoterica a cui solo pochi erano ammessi.
4_Sardanapalo – figura leggendaria di re assiro, prototipo presso gli autori greci del principe che vive nel lusso e nella mollezza e dell’uomo effeminato e lussurioso dalle abitudini scandalose. A lui veniva attribuita un’iscrizione ove si invitano gli uomini a mangiare, a bere e a fare l’amore. Il personaggio storico adombrato nella leggenda è Assurbanipal (Ashshūr-bān-apli, gr. Sardan£paloj), l’ultimo dei re assiri (668-626 a. C.), confuso peraltro, riguardo alla morte, col fratello Saossuchino.
5_Erano chiamati dionisiàsti non solo coloro che facevano parte del tìaso, cioè gli entusiasti al seguito di Diòniso e quelli che prendevano parte alle processioni, ma anche, in senso più ampio, tutti gli adepti della religione di Dioniso, così come, in senso lato, andava sotto il nome di tìaso tanto una singola congregazione quanto l’intera comunità dei fedeli.
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