già pubblicato il 12-5-2011
“Io ero ciò che tu sei; tu sarai ciò ch’io sono”
La Morte
di Ciro A. R. Abilitato
IL CIMITERO DELLE FONTANELLE A NAPOLI E IL CULTO DELLE ANIME PEZZENTELLE
In quella profonda forra del Rione Sanità, conosciuta col nome di Vallone dei Gerolomini, ove da sempre confluiscono le acque defluenti dalle colline del Vomero e dei Colli Aminei, c’è un luogo chiamato sin da tempi lontani Le Fontanelle. In questo luogo si trovano numerose antiche cave di tufo, per la maggior parte trasformate in rimesse, cantine, depositi e officine dalla moderna edilizia. L’ultima di tali cave, sul finire della via che si insinua nel fondo del vallone tra intricati casamenti popolari, è il Cimitero detto ‘delle Fontanelle’, straordinaria testimonianza di storia, antropologia, spiritualità e superstizione, nonché fonte di memorabili aneddoti legati all’insondabile anima mistica del popolo napoletano, contrassegnata da suggestivi aspetti di vita quotidiana che non smentiscono le origini ancestrali dei suoi sogni e dei suoi modi di rappresentarsi la realtà terrena e ultraterrena.
In accordo con quanto ebbe ad osservare nel 1787 Johann Wolfgang Goethe nel suo diario di viaggio in Italia, non è assolutamente difficile convincersi del fatto che “i napoletani rendono tutto visivo perché amano vedere”, attingendo il loro fervido estro inventivo a quella “spaventosa vitalità tipica del loro temperamento che li fa per natura recitanti” e nel contempo “creatori, attori e spettatori dello stesso spettacolo”. Le Fontanelle rivelano dunque l’altra faccia del Pulcinella scherzoso e pazziariello dei vicoli chiassosi e traboccanti di vita dei quartieri storici, quella del Pulcinella piangente, che è la faccia nascosta della maschera napoletana, quella malinconica e assorta, ascoltatrice di una voce sotterranea, segnata dal dolore del distacco da ciò che è caro, dall’angoscia della perdita e dalla rassegnazione alla sconfitta. Ma attenzione, proprio quando si crede di aver scandagliato l’anima del napoletano sin nel profondo, la mimica del volto e delle mani, certi gesti, certi oggetti di protezione e conforto personale (il corno di corallo rosso, le corna di una manina che pende da un portachiavi , quale primo presidio contro il malocchio, amuleti, anelli, medagliette, collarini, ecc.), certe espressioni e certi comportamenti (canti, grida ricche di doppi sensi dei venditori nei mercatini rionali; i richiami dei venditori ambulanti, come quello dell’arrotino e del mercante motorizzato di ninnoli e pupazzi di peluche; la voce errante del frettoloso ragazzo che bandisce il pane di semola per le vie cittadine) mettono in guardia da facili giudizi e pregiudizi. Anche l’occhio del napoletano, come per ogni uomo, è uno specchio fedele dell’anima, ma è pur sempre l’occhio di una guarattella, ossia di un burattino affacciato al suo boccascena e legato ai fili della sua anima di teatrante, dove la spontaneità si sposa all’istrionismo in un matrimonio fecondato, senza possibile distinzione di paternità, dalle oltre dieci razze che vi confluiscono, unitamente alle loro innumerevoli varianti di carattere regionale e antropologico: italica, greca, fenicia, latino-romana, bizantina, gotica, saracena, alemanna, balcanica, gallica, catalana, castigliana e così via. Più di dieci ingombranti personalità che si sovrappongono e si mescolano tra loro in modo originalissimo, dando vita al carattere dalle molte sfaccettature del popolo napoletano, di cui l’aspetto più immediato consiste in una densità e quasi esplosione di folklore, in una città di per sé chiusa, come se fosse ancora assediata da eserciti di conquistatori e governata da baronie straniere, ma il più delle volte assediata da se stessa e governata da suoi propri baroni. Tuttavia, tanto la politica quanto la scienza, cosi come il timore sacro e la fede, rappresentano per il napoletano altrettante occasioni di esibizione e di spettacolo.
Non bisogna mai dimenticare, inoltre, che alle Fontanelle ci si trova pur sempre in un quartiere del Rione Sanità, dove certamente il don Ersilio della nota commedia di Eduardo De Filippo, “Il Sindaco del rione Sanità”, starà ancora istruendo nell’arte del pernacchio coloro che vogliono imparare un efficace stratagemma che riesca a rendere inoffensivi i prepotenti. Del resto, ogni napoletano che si rispetti sa bene come vadano conformate le due mani e come debbano essere delicatamente avvicinate alla bocca, atteggiandole mollemente e umettandole con un po’ di saliva, per intonare a tutti i sopraffattori, i profittatori e gli inetti un sonoro pernacchio di testa e di petto dalle classicheggianti risonanze. C’è sempre, in ogni epoca e luogo, un duca Alfonso Maria di Sant’Agata De Fornari a cui si possa indirizzare il reboante saluto.
Nemmeno San Gennaro, il patrono della città e protettore personale di ogni singolo napoletano, va esente dalle esagerazioni di questo spirito popolare vivace e solare, che reclama ad ogni costo e in ogni occasione la Grazia, la quale deve essere concessa tra fervide preghiere, invocazioni e perfino improperi ed epiteti non molto edificanti indirizzatigli dalle Parenti, che sono le più strette devote del santo martire, e le uniche che possano anche redarguirlo per una dimenticanza. Un popolo, insomma, assetato di Grazia salvifica, che attende ansioso il miracolo dello scioglimento del sangue di San Gennaro nelle sacre ampolline, e che pure non dimentica le grazie regalategli dal grande Maradona, El Pibe de Oro (Il Ragazzo d’Oro), di cui si conserva un capello incorniciato in Piazzetta Nilo, a Spaccanapoli, oltre ad altre numerose reliquie. Il famoso calciatore argentino, somigliantissimo per temperamento ad un autentico napoletano, seppe infatti molto bene rinfocolare e confortare lo spirito campanilista di questa gente e far “squagliare il sangue nelle vene” ad ogni suo devoto tifoso.
Qui vive con la certezza di morirci un popolo innocente, furfante, generoso, pigro, zelante e baccanalista, ma anche passionale, mistico, realista ad oltranza, allegro sì, ma anche triste e nostalgico, arso nel suo inveterato sentimentalismo e da uno spirito creativo che, in verità, andrebbe più imbrigliato che stimolato, ma soprattutto profondamente religioso.
Le antiche cave di tufo giallo disseminate su tutto il territorio di Napoli, furono in passato sporadicamente utilizzate per povere sepolture, le quali si ingrandirono nel corso dei secoli, fino a diventare dei veri e propri cimiteri sotterranei.
Il Camposanto delle Fontanelle divenne il grande ossario che oggi si conosce in occasione della triste epidemia di peste del 1656, la quale decimò la popolosa Napoli, che allora contava circa 400.000 abitanti, mietendo tra le 250.000 e le 300.000 vite e portando ad esaurimento tutti i luoghi di sepoltura della città, tra i quali le Catacombe di S. Gennaro e S. Gaudioso, i siti funerari di S. Pietro ad Aram e le cripte di Santa Maria del Purgatorio ad Arco. Fu così che nell’enorme cava di tufo delle Fontanelle si cominciò a stipare un gran numero di cadaveri, e talvolta “fu d’uopo consumare i corpi col fuoco” (P. Giannone 1723). Poiché i siti di raccolta erano stracolmi e il pericolo di contagio altissimo, molti che morivano per strada venivano sepolti sul luogo, dove, aperta una fossa, si continuava poi ad aprirne altre intorno per seppellirvi altri corpi. Quando queste cavità, dette ‘charniers’ (‘tombe, ossari’, ma più propriamente ‘carnari’), si riempivano del tutto, vi si poneva a chiusura una lapide che diceva: “Tempore Pestis 1656 – Non Aperitur”, che vuol dire: “Questa sepoltura è stata posta qui al tempo della peste del 1656 – non sia aperto!”. La frase era lasciata ellittica della proposizione soggettiva, in quanto era la stessa pietra tombale a parlare, come usavasi in antico.
Simili sciagure colpirono ancora il regno di Napoli tra il XVII e il XVIII secolo. Il 1764 fu un anno memorabile a causa di una carestia disastrosa, mentre nel 1804 venne promulgato da Napoleane Bonaparte l’Editto di Saint Cloud, che svuotava i sepolcreti posti all’interno di tutte le città d’Europa, istituendo per i defunti appositi luoghi di sepoltura lontani dai centri abitati. Si possono facilmente immaginare i terribili e macabri cortei di carri stracolmi di ossa e di cadaveri, accompagnati da interminabili processioni di popolani, monaci, predicatori e incappucciati, che per anni, a partire da quella data, presero ad attraversare tutte le città d’Europa, facendole sprofondare, sul nascere del positivismo, nel più profondo Medioevo. Anche questa volta si ripeteva l’afflusso di spoglie mortali nelle lugubri e vaste cavità delle Fontanelle, situate a quel tempo fuori dal centro cittadino. Successivamente, un’altra ordinanza del 1837 portò alla definitiva rimozione di resti mortali da tutti gli ossari di parrocchie e confraternite all’interno delle città, per cui si continuò ad utilizzare le antiche cave di tufo. Le Fontanelle era ormai al limite della capienza, anche perché a Napoli, nel 1836, c’era stata una spaventosa epidemia di colera, e i profondi antri tufacei avevano assicurato l’isolamento assoluto dei corpi da cui si sviluppava il contagio. Successivamente, sul finire del XIX secolo, queste gallerie, a seguito di violenti e prolungati temporali, furono inondate da una imponente quantità d’acqua che trascinò e sparse all’aperto un gran numero di resti mortali. Gli abitanti del rione non osavano uscire dalle proprie abitazioni per non subire l’umiliazione di doversi fare spazio tra gli ossami e di dover riconoscere tra essi i corpi di qualche loro caro, finché le autorità cittadine non affidarono ai salmatari il compito di riportare le salme e tutti gli altri resti all’interno della cava. Fu allora che per la prima volta si impose una razionale sistemazione delle spoglie che vi sono conservate. Opera questa che fu portata a compimento dalla pietà popolare e dalle maestranze del rione, e che diede al cimitero l’attuale assetto; un risultato che si poté ottenere mediante l’impiego di nutriti gruppi di lavoro costituiti da volontari e per lo più da popolane devote, che da allora sono chiamate ” ‘e Mmaste’ (le Mastre). Le innumerevoli spoglie mortali furono così disposte nei vasti spazi e a ridosso delle pareti tufacee dell’antro dei Gerolomini, seguendo schemi e raggruppamenti precisi, come ricorda una lapide marmorea collocata all’esterno della chiesa di Maria Santissima del Carmine, eretta alla fine dell’Ottocento dinanzi all’ingresso dell’ossario in segno di ossequio per tutti coloro che, rimasti senza nome, morirono nel corso di epidemie, carestie, rivolte, o per povertà, o all’interno di luoghi di reclusione, e le cui spoglie sono classificate come “resti anonimi”. Da allora numerosi sono stati gli interventi di riordino e sistemazione del sacrario da parte dell’amministrazione cittadina, ai quali si sono via via aggiunti interventi per il contenimento delle pareti tufacee, soggette a fratturazione e sgretolamento.
Fu alla fine dell’Ottocento, con padre Gaetano Barbati, canonico di Santa Maria di Materdei, che cominciò a trovare un forte incremento il culto delle anime purganti soggette ad una “espiazione fiduciosa della luce”; culto che assunse carattere profondo e che condusse ad un rafforzamento della pratica quotidiana del colloquio tra i vivi e i morti.
Coadiuvato dal popolo e dalle Mastre, don Barbati si occupò della definitiva sistemazione dei resti mortali all’interno del sacrario, i quali rimangono ad oggi tutti anonimi, fatta eccezione per due salme, quella di Filippo Carafa, Conte di Cerreto dei Duchi di Maddaloni, secondogenito di Carlo e di Carlotta Colonna di Stigliano, nato a Cerreto del Sannio nel 1709 e morto a ottantaquattro anni a Napoli, il 17 luglio 1793, e quella di donna Margherita Petrucci, nata Azzoni, suocera di Diomede Carafa marchese d’Arienzo, morta all’età di cinquataquattro anni, il 5 novembre del 1795. Entrambi i corpi, distesi nelle loro casse con ancora addosso le loro vesti originali e protetti da teche di vetro, trovano posto nella navata dei preti. Quello di Margherita Petrucci, conservatosi in stato di mummificazione naturale, con la bocca spalancata, ha alimentato la diceria popolare secondo cui la nobildonna morì prematuramente mentre mangiava, soffocata da un boccone andatale di traverso, da cui l’appellativo di “donna Margherita affogata dallo gnocco”. Con questa tarda leggenda, il sentimento popolare ha inteso porre ironicamente in risalto l’insegnamento più significativo offerto dalla presenza delle due nobili salme nell’ossario delle Fontanelle, e cioè che i più poveri concludono la propria vita su questa terra avendo conosciuto un’esistenza misera e stentata, segnata da ogni sorta di malattie e dalla fame, mentre i ricchi muoiono in buona salute e mangiando; ma poiché alla fine tutto si livella, non trovano giustificazione in vita tante differenze e sottigliezze, e sopra ogni cosa l’arroganza e la cattiveria.
Nell’opera di riordino delle Fontanelle, i resti provenienti dalle parrocchie e dalle congreghe furono sistemati nella cavità che si apre sulla sinistra dell’attuale ingresso, quella retrostante alla chiesa di Maria Ss. del Carmine, che prese il nome di “navata dei preti”; i resti di coloro che morirono di peste trovarono sistemazione nella cavità centrale, che fu perciò chiamata “navata degli appestati”, mentre quelli della gente povera furono collocati nella navata di destra, detta “dei pezzentelli”. Essendo impossibile il più delle volte ricomporre i corpi, la disposizione dei resti seguì un ordine prestabilito, secondo la tipologia delle ossa, le più grosse delle quali venivano raggruppate in ammassi geometricamente sagomati, formati da strati di tibie, di femori, di costole, di bacini e così via, con i crani ordinatamente allineati nella parte più alta dei cumuli, come prescriveva la tecnica conservativa in uso negli ossari delle chiese e dei monasteri medievali.
Per molto tempo ci si è chiesti come potessero essere finite nell’ossario delle Fontanelle, destinato ad accogliere spoglie mortali senza nome, i corpi di personaggi di così alto lignaggio, quali quelli di Filippo Carafa e di donna Margherita Petrucci, che appartennero a casati di principi di primissimo piano, con dinastie di duchi, marchesi, conti, visconti e baroni lustrate da schiere di cardinali e vescovi, e perfino dalla figura di un papa (quale fu Givan Pietro Carafa, salito al soglio pontificio nel 1555, all’età di 79 anni, col nome di Paolo IV). Come è dunque potuto accadere che questi corpi siano venuti a trovarsi alle Fontanelle, visto che un nome ce l’hanno, e che le famiglie cui appartennero, feudatarie al loro tempo di enormi latifondi, possedevano cappelle gentilizie in centinaia di città sottoposte alla loro signoria e in quasi tutte le principali chiese napoletane. Stando ai documenti storici, le salme dei due aristocratici trovarono sistemazione presso le Fontanelle verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, nel corso della vasta opera di svuotamento degli ipogei delle chiese napoletane dei resti umani in esse ancora presenti e accumulatisi nei tempi successivi all’Editto di Saint Cloud del 1804. Durante tali lavori, le spoglie dei defunti ancora identificabili e appartenenti a famiglie esistenti, conservate nei sepolcreti ecclesiastici ad uso delle confraternite, vennero trasferite negli ossari e nei colombari che queste avevano nei cimiteri cittadini, mentre tutti gli altri resti furono convogliati alle Fontanelle. Tale sorte ebbero anche le spoglie di Filippo Carafa e di donna Margherita Petrucci che, provenienti dalla chiesa di Santa Maria Ognibene dei Sette Dolori a Montecalvario, dove si trovava la loro cappella familiare, trovarono riparo nell’antro dei Gerolomini. Tale sistemazione doveva avere carattere provvisorio, in attesa che fosse portato a compimento il colossale programma di restauro delle cappelle gentilizie di interesse storico e monumentale all’interno delle chiese della città. Tuttavia, simili programmi di riqualificazione del patrimonio artistico e architettonico richiedono sempre, come si può immaginare, e soprattutto in una città complessa come Napoli, ingenti investimenti e tempi calcolabili in decenni. Di conseguenza, le salme dei due aristocratici rimasero “dimenticate” alle Fontanelle. In principio le due bare, recanti iscrizioni e gli stemmi nobiliari dei Carafa della Stadera e degli Stigliano, furono poggiate senza alcun risalto tra altri cassoni traboccanti di resti mortali immediatamente alla sinistra dell’attuale ingresso dell’ossario. Successivamente, negli ultimi del Novecento, durante una nuova serie di interventi di risanamento del sito, esse vennero spostate dall’amministrazione comunale nella navata dei preti, chiuse in teche di cristallo e sistemate tra l’altare e il Cristo deposto della cappellina interna al sacrario, dove tutt’oggi si trovano. Questa collocazione è certamente più rispettosa del rango dei due aristocratici e sembra in certo qual modo ricalcare l’originaria disposizione che i due corpi dovevano avere all’interno della loro cappella familiare, nel succorpo della bella chiesa di Santa Maria Ognibene dei Sette Dolori, che ancora oggi domina Spaccanapoli dalle pendici di Montecalvario.
Nel marzo del 1872, padre Barbati, promotore e fondatore, unitamente al card. Sisto Riario Sforza, dell’Opera pia per il suffragio delle anime in pena, ricevette dal Municipio le chiavi del cimitero delle Fontanelle dove, nello spazio più antico della cava, sgombrato all’uopo degli ossami, fu istituita una cappella per i riti di pietà religiosa e le celebrazioni di conforto e suffragio a “refrisco” (a refrigerio) delle anime dei defunti dell’ossario. Successivamente la cappella fu affiancata dalla già citata chiesa di Maria SS. del Carmine, dalla quale si scende nell’ossario passando per la grotta di Lourdes, dove sono collocate le effigi dell’Immacolata e di Bernardette. Di qui si passa alla cappella del Cristo morto, con un grande altare in marmo e il presepe con le figure di Maria e Giuseppe a grandezza naturale. Segue la cappella dedicata a don Barbati, dov’è collocata la statua del canonico, sotto la quale è posta una bara con i resti di due corpi strettamente uniti, detti ” ‘e Spuse” (gli Sposi), la cui storia è legata alla leggenda del teschio del Capitano.
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IL CULTO DELLE “ANIME PEZZENTELLE”
Obeunt noctesque diesque astraque,
nec solidis prodest sua machina terris.
Nam populus mortale genus, plebisque caducae
quis fleat interitus? Hos bella, hos aequora poscunt;
his amor exitio, furor his et saeva cupido,
ut sileam morbos; hos ora rigentia Brumae,
illos implacido letalis Sirius igni,
hos manet imbrifero pallens Autumnus hiatu.
Quicquid init ortus, finem timet. Ibimus omnes,
ibimus: immensis urnam quatit Aeacus umbris.
(Publius Papinius Statius, Silvae, II,I,210-219)
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Passano le notti, e i giorni, e gli astri,
e alla solida terra non giova il suo congegno.
E poiché mortale è il genere umano, come potrebbe
una massa di gente caduca
piangere chi è morto?
Alcuni sono annientati dalle guerre, altri dai mari;
per certuni è fatale l’amore, per altri il furore o una feroce passione,
per non dire dei mali.
Le gelide fauci della Bruma aspettano alcuni;
altri ne aspetta il mortifero Sirio dall’implacabile fiamma,
ed altri ancora il piovoso autunno con la sua svigorente avidità.
Soggetto a morte è tutto ciò che inizia a nascere.
Andremo, andremo via tutti.
Eaco scuote l’urna per un numero infinito di ombre.
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(Publio Papinio Stazio, Le Selve, II,I,210-219)
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Gli ultimi grandi sacrari del “Culto popolare dei morti” sono a Napoli la barocca chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco, in via dei Tribunali, a Spaccanapoli; la basilica di San Pietro ad Aram, luogo di conservazione dell’Ara Petri (la pietra marmorea dell’altare su cui san Pietro celebrò messa e battezzò Santa Candida e Sant’Aspreno durante il suo soggiorno a Napoli), il cui accesso è da Corso Umbero I; e il Cimitero delle Fontanelle, nel Vallone dei Gerolomini. Quest’ultimo sito continuò ad essere frequentato per molti anni, nonostante i divieti della curia, che nel 1969 proibì ai fedeli di persistere in espressioni di pietas non propriamente allineate alla pratica religiosa riconosciuta dalla Chiesa e dalla tradizione, in quanto troppo spesso tendenti a sfociare in comportamenti superstiziosi di tipo feticistico e in pratiche e credenze fuorvianti. L’intervento della Chiesa, nella persona dell’arcivescovo di Napoli card. Corrado Ursi, che dispose l’interdizione del luogo ai fedeli, trovava la sua giustificazione nel fatto che non era infrequente che defunti senza nome assurgessero al rango di spiriti protettori o alla dignità di santi di un culto profano, e ciò soltanto perché tali anime sembravano rispondere con “favori” alle preghiere spese in loro suffragio da parte di affezionati devoti. Costoro solevano infatti legare a sé i defunti delle Fontanelle in una sorta di adozione a distanza, e curarli alla stregua di parenti stretti, ma con fini che sovente andavano discostandosi dal corretto sentimento religioso che la Chiesa costantemente indica. In questo luogo si venivano a reclamare alle anime pezzentelle benefici ben più pratici e ordinari di quelli che si possono chiedere ad un santo canonizzato dalla fede e dalla tradizione cristiana. Il popolo si era così creato i suoi protettori in cielo per qualsivoglia evenienza, non soltanto per quelle esigenze che concernevano la salute del corpo, la guarigione dalle infermità e la salvezza dell’anima, bensì anche per quelle necessità che riguardavano aspetti ben più materiali e pratici della vita. Si chiedeva alle anime del purgatorio di fornire in sogno consigli, vaticini, pronostici, auspici, soprattutto in relazione ad attività economiche, a relazioni sentimentali (fidanzamenti, matrimoni), a rapporti di vita con i familiari (suocere, suoceri, nuore, generi, figli, nipoti) e, naturalmente, numeri che assicurassero una vincita al gioco del lotto. Insomma, si impetravano favori che necessitavano di un potente intervento da parte della sfera soprannaturale. Per questo, come si dice, i napoletani sogliono ancora oggi avere, oltre che numerosi amici e molte conoscenze tra i vivi in ogni settore delle attività umane, almeno un santo in paradiso, un santino in purgatorio e, poiché i casi della vita sono strani e vari, qualche conoscenza ben introdotta anche all’inferno. Va tuttavia sottolineato che il Culto delle Anime Pezzentelle praticato a Napoli non è un culto particolare rivolto esclusivamente alle anime dei poverelli, bensì una forma di ossequio e di attenzione compassionevole che si rivolge alle anime dei defunti sconosciuti e dimenticati, e in particolar modo alle anime del Purgatorio, le quali invocano dall’aldilà, secondo la tradizione, che siano ricordate nelle preghiere.
L’Ossario delle Fontanelle, interamente scavato nella massa tufacea della collina di Materdei con la secolare attività di estrazione del tufo giallo, utilizzato come pregiato materiale da costruzione fin dal XVI secolo, si estende su una superficie di circa 5000 mq per una lunghezza di 100 metri e un’altezza di 13, ed è complessivamente ripartito in tre grandi cavità, dette navate, situate alle spalle dell’ottocentesca chiesa di Maria Santissima del Carmine. In tali enormi sale sono conservati all’incirca 40.000 teschi e circa otto milioni di altre ossa, ma si ritiene che sotto l’attuale piano di calpestio si trovino stipate montagne di resti per almeno altri quattro metri di profondità. Tuttavia, l’aspetto che maggiormente attira l’attenzione dei visitatori del grande ossario, oltre alla impressionante quantità di resti mortali, è la grande quantità di edicole in marmo, commissionate dai devoti ad artigiani specializzati in quest’arte e talvolta realizzate dagli stessi popolani per dare una sistemazione ai teschi miracolosi e distinguerli dagli altri ammonticchiati negli spazi e lungo le pareti del profondo antro del Vallone dei Gerolomini. Chi non poteva permettersi teche di marmo o scarabattoli di legno di qualche pretesa, usava per la testa del defunto adottato cassettine di legno a buon mercato o edicolette ricavate da scatole di biscotti in lamina di latta e arricchite con cuscini, pizzi, merletti e ornamenti di vario genere, ma non era raro che il devoto usasse, per distinguere il teschio del proprio genio tutelare, una semplice ‘scolla’, cioè una fascia, la quale veniva avvolta intorno alla fronte o annodata sul cocuzzolo della reliquia, onde evitare che la mandibola o qualche altro pezzo si staccasse dal tutto tenuto in tal modo insieme. A corredo funebre, ‘a capuzzella, ossia il teschio, veniva incorniciata di fiori, corone, lumini e santini, e quasi sempre i devoti piegavano dei bigliettini o dei cartoncini colorati recanti preghiere contenenti messaggi di richiesta o di ringraziamento, i quali venivano poi imbucati all’interno della “cap’e morte” (della testa di morto). Il cranio del morto faceva così da cassetta postale per quei desiderata che via via venivano a riempirne il volume, un tempo destinato ad accogliere il più rappresentativo degli organi umani ed ora pronto a ricevere missive personalissime da essere recapitate a un destinatario residente nell’aldilà. Vale a dire all’ex proprietario di quella testa. In tale pratica era di estrema importanza il momento dell’avvicinamento del vivo ai resti di uno sconosciuto defunto. Era infatti quest’ultimo a scegliersi la persona che lo avrebbe poi accudito “materialmente” sulla terra e che avrebbe per lui interceduto con preghiere presso il Padreterno e i Santi del Paradiso. Di solito, chi si metteva in cerca di un’anima pezzentella da accudire, cioè di un’anima del Purgatorio, si addentrava da solo, al crepuscolo serale o nel silenzio della notte, nel tetro antro delle Fontanelle, per aggirarsi al suo interno nel buio appena rischiarato dal fievole bagliore di un lumino adagiato ad una certa distanza per terra, nell’attesa che, tra sinistre presenze innaturali, ma anche naturali, un teschio in mezzo ai tanti ammonticchiati desse un segno che richiamasse la sua attenzione. Di regola il segno consisteva in un lucore in un punto buio della profonda caverna. Il teschio, per farsi riconoscere, iniziava infatti a farsi più chiaro tra la massa informe delle ossa circostanti, fino ad illuminarsi visibilmente di una luce tenue e soffusa, ma a volte anche molto vivida. Naturalmente, il segnale poteva anche provenire dal teschio di un’anima abietta, per cui il visitatore poteva scegliere se accordare o no al richiedente la sua amicizia, secondo l’impressione ricevuta sul momento. L’attenzione doveva essere massima, anche perché il luogo era popolato di presenze, e non era da escludere che ci si potesse imbattere nella ‘Signora vestita di nero’ e di vederla in faccia: l’incontro peggiore che si potesse fare in quel luogo, perché era diffusa convinzione che la Signora non fosse adusa a scendere a patti con nessuno. Una volta stabilito nei dettagli l’accordo di mutua assistenza, il vivo e il morto rimanevano legati indissolubilmente l’uno all’altro, salvo poi ricorrere a sacre pratiche di scioglimento del vincolo e ad esorcismi, in caso di insane intese. Naturalmente, la via di comunicazione tra il vivo e il morto era il sogno. Con la sottoscrizione del contratto, che avveniva verbalmente, ma anche lasciando un pegno, il morto si impegnava da parte sua ad assistere dall’aldilà, secondo le sue possibilità, il vivo, esaudendone le richieste, le quali dovevano comunque rientrare in un certo ambito di ragionevolezza e di fattibilità per il defunto, pur potendo questi intercedere presso i Destini e le Forze del caso. Il vivo, invece, diveniva un familiare del defunto, un parente, e in tale veste si obbligava ad intercedere in suo favore presso i Santi del Paradiso con preghiere, penitenze e pellegrinaggi nei luoghi consacrati dalla tradizione religiosa, nonché a portare di quando in quando del cibo da essere consumato dall’anima espiante, affinché questa, avendo contatto con i sapori della terra, non se ne allontanasse, rompendo il patto col suo socio vivente. Costituiva anche clausola del patto per il promittente terreno, l’impegno di pulire, rassettare e adornare le spoglie mortali del defunto, rimasto orfano di parenti viventi che si ricordassero di lui e che provvedessero a tale ufficio. Naturalmente, i modi di far fronte agli obblighi assunti da entrambe le parti erano lasciati al senso di convenienza e all’inventiva sia del morto che del vivo, sicché nulla veniva tolto alla spontaneità, al temperamento e all’originalità di ciascuno dei due soci. Per questo non c’è da farsi meraviglia se gli ornamenti possono apparire al visitatore odierno delle Fontanelle disposti in modo inusuale rispetto a quelli di un comune cimitero, conformandosi a gusti personalissimi e perfino a canoni stilistici che hanno trovato una certa diffusione tra i frequentatori di questo luogo. Per esempio, tra i tanti teschi curati e abbelliti dai devoti, se ne trovano alcuni con corone di fiori di carta o di stoffa adagiate graziosamente intorno ai parietali del defunto venerato; altri crani mostrano ciuffi di fiorellini che sbucano dalle orbite profonde e dai fori auricolari, utilizzati come portafiori; altri crani sono passati a cera e appaiono così bene lucidati da dare l’impressione che la spoglia abbia ricevuto le cure scrupolose della mano di un’estetista di professione o che sia appena tornata da un centro di benessere di un esotico luogo di villeggiatura. Grossi crani dolicocefali dall’espressione dura e arcigna, i quali devono essere appartenuti ai marinai della ciurma arruolata su qualche galea della flotta napoletana, con fluenti chiome di fiorellini variopinti, collanine di vetro adagiate sotto il mento e orecchini di finta perla vicino al buco degli orecchi; teste assorte di pensatori con un bouché di fiori di prato a formare una incipiente calvizie di tipo socratico; simpatiche vecchine sdentate, ma riccamente ingioiellate, intente in un irriverente pettegolezzo d’altri tempi; zitellucce cianciose che aspettano ancora un appassionato innamorato che rechi loro un mazzo di rose purpuree in omaggio alla loro voluttuosa avvenenza; mendicanti adorni di coroncine e figurine di santini che ancora sembrano chiedere l’elemosina al passante sbigottito; teste di sagrestani, preti, fraticelli e anche di qualche alto prelato con le scarne bocche spalancate, che sembrano pronte ad intonare un solenne inno sacro in una formidabile assonanza di voci.
Ogni ornamento non doveva comunque intaccare o sporcare la reliquia, per cui era regola che fossero usati soltanto fiori di panno, di carta o di plastica, o di altro materiale non dannoso per la spoglia mortale. Questa disposizione degli ornamenti trova la sua ragione nel fatto che tutto doveva stare addosso alla reliquia o vicinissima ad essa nella teca, non potendo essa godere di un avello o di una nicchia più capiente. Mancano infatti nell’ossario loculi e arcosoli riservati al culto familiare e strettamente privato.
Moltissime nell’ossario anche le foto, soprattutto di soldati, ma anche di fanciulli, affidate alla custodia delle mistiche ‘presenze poverelle’ del luogo.
Tra le tante personificazioni che la fantasia popolare ha creato in secoli di dimestichezza con le presenze di questo ambientino così esclusivo e con tanta disinvoltura frequentato dal popolo, sono da menzionare la figura di Lucia, una giovinetta morta mentre fervevano i preparativi del suo matrimonio; quella del ‘Monaco, chiamato anche ‘a capa ‘e Pascale’ (la testa di Pasquale); il ‘Capitano, figura emblematica delle Fontanelle, come anche quella di donna Cuncetta, nota come ‘a capa ca cola surore (la testa che gronda sudore). A tutte si assegnava il potere di fornire numeri sicuramente vincenti al gioco del lotto, naturalmente offerti nel linguaggio della cabala napoletana, la cui interpretazione era affidata alla consultazione, da parte di persone esperte, del libro dei sogni, la cosiddetta ‘smorfia’.
Un’attenzione particolare era riservata alle anime dei bambini, come quella di Pasqualino, detto ‘o’ Piccerillo’, intorno alle quali erano diffusi numerosi racconti permeati di tenerezza e di benevolenza. Ma le meraviglie del sacrario sono tante, e il visitatore non può mai dirsi al sicuro finché non si porta all’esterno di questo antro infestato di spettri d’ogni epoca, condizione e nazione. Non è improbabile, inoltre, che possa venirsi a trovare faccia a faccia col ‘Monacone’, l’alta e inquietante figura di san Vincenzo Ferreri (in valenciano Vicent Ferrer, in napoletano Vicienze Ferrere, alias, ‘o Munacone) , domenicano spagnolo dell’Ordine dei Predicatori, nato a Valencia il 23 gennaio 1350. Il dotto frate visse al tempo dello scisma d’Occidente, ed è noto come il maestro che girò l’Europa occidentale a dorso di un somarello vaticinando la venuta dell’Anticristo, anche se, in verità, si preferisce ricordarlo in qualità di santo taumaturgo. Morì a Vannes, in Bretagna, il 5 aprile 1419, e fu sepolto nella cattedrale di quella città. Nel suo processo di canonizzazione gli furono attribuiti 873 miracoli, ma il prodigio che i Napoletani più preferiscono ricordare, e che più si addice a questo luogo, che fu un tempo una cava di tufo, è quello riguardante il salvataggio di un muratore che stava cadendo da un andito. Il fatto strepitoso è però che Vincenzo, osservatissimo della regola dell’Ordine e delle disposizioni dei superiori, per eseguire il miracolo rimase in attesa del consenso del suo priore, sicché trattenne il povero giovane sospeso a mezz’aria per tutto il tempo che ci volle a decidere. Si era al tempo dello Scisma d’Occidente, come detto, la Chiesa romana era in subbuglio, Vincenzo Ferrer era sostenitore del papato avignonese, l’operaio era di origine greca, così ci vollero parecchi giorni prima che quest’ultimo potesse toccare terra incolume e reggersi sulle sue gambe. In verità, il giovanotto fu davvero fortunato, non solo per essere stato beneficiato da quel miracolo che gli salvò la vita, ma anche perché, per come si erano messe le cose tra il papato romano e avignonese, aveva seriamente rischiato di rimanere sospeso in aria per tutto il tempo del Concilio di Pisa, protrattosi per gran parte dell’anno 1409 . La statua è oggi priva della testa, e l’alta figura del santo si erge sul suo piedistallo sinistramente decapitata. Tuttavia una mano compassionevole, per una certa esigenza estetica di completezza reclamata dall’occhio, ha voluto collocare su quel collo mozzo, al posto della bellae rotonda testa che appartenne al santo predicatore, un rasserenante teschio posticcio, scelto fra i meglio conservati della collezione dell’ossario. La mancina figura è raggiunta di giorno da un fascio di luce naturale che arditamente penetra dall’esterno facendola risaltare improvvisamente dal buio, a seconda dell’orientamento del sole (roba da farti prendere uno schianto!), e donandole quel po’ di meritato smalto che, a dire il vero, sembra perfettamente intonarsi all’aria allegra e festaiola del luogo. La faccia del Monacone appare così schietta e ridente davanti al visitatore quando questi meno se lo aspetta. È comunque voce comune tra i popolani che il fenomeno si ripeta in modo ancora più suggestivo anche nelle notti di luna. Non è perciò difficile immaginarsi come san Vincenzo si presenti al plenilunio, avvolto nella naturale nebbiolina che esala dal suolo di questo incantevole luogo di soggiorno e cura delle anime del purgatorio. Avrebbe mai potuto immaginare il povero Vincenzo Ferrer che sarebbe stato così appassionatamente venerato a tanta distanza dalla città dove è sepolto? Avrebbe mai potuto immaginare il Santo protettore degli operai edili, lui che fu il confessore personale di papa Benedetto XIII, lui che sostenne Ferdinando I d’Aragona detto il Giusto come successore al trono di Martino I d’Aragona, lui che nel Concilio di Costanza si batté per la fine dello scisma e che riconobbe l’elezione al soglio pontificio di Martino V Colonna, se lo sarebbe mai aspettato il povero Vincenzo Ferrer che a Napoli sarebbe divenuto così famoso e benvoluto per via dei suoi 873 miracoli (che poi sono solo quelli ufficialmente riconosciutigli dalla Chiesa romana)? Se lo sarebbe mai immaginato il Monacone che i napoletani gli avrebbero assegnato un posto di tanto rilievo e così confortante nel tetro ossario delle Fontanelle?
Ad ogni modo, qualsiasi cosa si voglia pensare, le pratiche e le credenze legate alle Fontanelle, le quali appaiono oggi lontanissime nel tempo e spesso incomprensibili, furono autentiche, anche se potrebbero essere giudicate con superficialità, e come non del tutto riverenti verso i defunti, ossia orientate più alla spettacolarità che non ad una religiosità sentita. È vero nondimeno esattamente il contrario, perché i comportamenti che abbiamo visto non sono altro, in definitiva, che un modo di riportare i defunti nella realtà dei viventi al fine di prolungarne la vita e la memoria, e renderli in tal modo ancora partecipi e finanche protagonisti di un’esistenza che nelle epoche passate procedeva parallela a quella che si svolgeva nella realtà ordinaria. Ciò nondimeno, bisogna anche dire che gli interventi della Chiesa, finalizzati a porre un argine alla superstizione, sono stati opportuni. La risoluzione della curia napoletana trova giustificazione anche nel fatto che l’amministrazione cittadina non assicurava la dovuta cura del luogo, il quale si presentava staticamente pericoloso per mancanza di interventi manutentivi, nonché igienicamente poco adatto alla frequentazione del pubblico per la totale assenza di una adeguata sorveglianza igienico-sanitaria. Il sito, rimasto così per molti anni chiuso al pubblico e abbandonato, dopo il 2002 è stato messo in sicurezza e riordinato per interessamento dell’amministrazione comunale, che ha provveduto, dietro sollecitazione degli abitanti del Rione, ad aprirlo alla frequentazione del pubblico per pochi giorni all’anno. Successivamente, pacifiche rimostranze degli abitanti del Rione Sanità e numerose critiche da parte di associazioni religiose, di storici, di operatori turistici e di ambientalisti, hanno spinto l’Amministrazione Comunale a rendere il luogo visitabile previa richiesta presso un apposito sportello.
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ANEDDOTI
Il Popolo napoletano è famoso nel mondo per la sua fede tenace e per le sue colorite credenze, le quali sono indissolubilmente legate a luoghi e ad avvenimenti considerati miracolosi e carichi di mistero, e che affondano le loro ragioni nella notte dei tempi. Qui se ne menzionano alcuni tra i più noti legati al Cimitero delle Fontanelle e ancora oggi conosciuti tra gli odierni abitanti di questa città.
La leggenda del Capitano – Una teca in particolare viene indicata come quella contenente il teschio di un defunto chiamato ‘o Capitano (il Capitano), che a differenza degli altri crani ammonticchiati nel vasto ossario, si dice che riluca, e che non sarebbe mai ricoperta dalla polvere, e questo perché, in presenza del devoto raccolto in preghiera davanti alla sua figura (davvero poco rassicurante, si creda!), si vuole porre fede nel fatto che la provvidenza operi in modo tale che quando il segno della grazia viene ad essere positivo, dal cranio effonda una vivida luce spettrale, mentre se il responso assume carattere negativo, lo stesso cranio divenga opaco, facendosi più scuro e tetro, e ricoprendosi anche di polvere. Ma naturalmente, simili esperimenti non sono da farsi mai a cuor leggero.
La leggenda di Donna Concetta – Un’altra leggenda, legata sempre alla luce proveniente dai teschi, narra che una popolana molto conosciuta nel quartiere, certa Donna Concetta, desiderando ardentemente una gravidanza che la rendesse una donna realizzata, meditò di recarsi alle Fontanelle per chiedere a un’anima del purgatorio la grazia. Donna Concetta si recò dunque al sacrario del rione per invocare il soccorso di cui necessitava, e dopo aver recitato varie preghiere dinanzi ad un teschio senza nome, si accostò ad esso e lo accarezzò delicatamente per assicurarsi che l’anima del morto avesse accolto la sua richiesta. Il teschio si illuminò e Donna Concetta rimase incinta. Dopo nove mesi diede alla luce il figlio a lungo desiderato, un bimbo sano e vivace che riempì il cuore di gioia a lei e al suo coniuge. Subito dopo il parto, appena poté rimettersi in piedi, ella si diresse correndo presso il teschio per ringraziare l’anima del defunto della grazia ricevuta, e giunta lì, notò che il cranio, per farsi riconoscere, prese a emanare una forte luce, mentre gli altri teschi lì intorno rimanevano opachi e ricoperti di polvere. Donna Concetta adottò il teschio e divenne una fervente devota dell’ignoto defunto, la cui anima le era venuta in soccorso dal suo lontano luogo di espiazione.
I teschi che sudano – Il seguente aneddoto mette in evidenza come un comunissimo fenomeno fisico abbia assunto connotazioni particolari per i popolani che solevano chiedere favori ai defunti rinchiusi nel sacrario delle Fontanelle.
Si narra che una volta alcune persone, per chiedere dei favori alle anime del Purgatorio, accendessero un gran numero di candele in quell’ambiente tenebroso delle Fontanelle, al fine di illuminare l’oscuro antro tufaceo in cui si erano riunite e prepararsi così a recitare senza timore le loro preghiere dinanzi ai teschi miracolosi dei loro favoriti. Mentre questi devoti pregavano, alcuni di essi notarono che, improvvisamente, le occhiute teste dei morti si erano imperlate di goccioline di sudore, cosa che essi attribuirono senz’altro a un segno dell’aldilà, e soprattutto al fatto che le anime del purgatorio ascoltavano e accoglievano le loro ferventi richieste. La cosa, comunque, suscitò lo stupore di tutti e produsse una profonda impressione in quell’ambinete lugubre e pieno di misteriose presenze, e così si gridò al miracolo. L’eco dell’evento durò moltissimo tempo, fino a quando, con l’avvento dell’energia elettrica, della radio, della televisione e col capillarizzarsi dell’istruzione pubblica, anche i popolani più retrivi non si convinsero che quelle goccioline, credute un tempo una sorta di sudore sacro, non erano altro che condensa, la quale si formava sui lisci teschi a seguito dell’accensione di numerose candele nell’ambiente fresco-umido di quelle buie caverne. Nonostante ciò, il sentimento mistico non si spense, e benché la credenza popolare nel fenomeno non fu più quella di una volta, la vicenda conferì un rilievo particolare ad un fatto che oggi sappiamo normale e del tutto comune, trasformando così in un simpatico aneddoto un episodio antico che sarebbe andato sicuramente dimenticato, e che invece, diversamente da quanto oggigiorno accade per avvenimenti anche di grande rilevanza o gravità, rimane ben vivo nella memoria popolare.
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DA UN’INTERVISTA AD UNA POPOLANA
Nella versione di Ciro A. R. Abilitato
«Avita sapé c’abbascio ‘e Funtanelle se scenne cu o core mmano e a feda. Chi ‘nquieta ll’anneme d’o Priatorio passa guaje nire! Pinsate ca duje ‘nnammurate, primm’e se spusà, jettene addint’o Campusanto re Funtanelle, e agguanno se truvajeno annanze a lo’ schelletro do Capitano, ‘o giuvinotto, pe’ fa ‘o sbruffunciello annanza alla ‘nnammurata soja, dicette: “A chistu cà, o’ vvì, l’invitammo ‘o spusalizio nuosto», e ditto chesto, se schiattajen a’ ri resate tutt’e dduje. ‘O juorno d’o spusalizio venette: tutte li cunvitate magnaveno e vevéveno dint’alla tratturia, agguann’ all’intrasatta s’appresentaje nu signore ajaveto, distinto, cu na faccia scura, tutto vestuto ‘e janco: pareva nu capitano ‘e mare, ma nisciuno lo canusceva, nisciun sapeva addicere chi maje fussa chistu cunvitate. Chist’ommo era cumparuto sotto all’arco re la porta all’impruviso, e senza se guardare attuorno s’era fatt’ annanze, aveva travirsato risuluto la sala della tratturia et era agghiuto reritto reritto annanze alli spuse comme pe ri li salutà. O’ sposo, verennese annanze sta sagoma e’ ommo, le dicette: «E tu chi si’, me pare ca nun te canosco!». La ficura allora arrispunnette: «Nu me canosci? Ah, jamme bbuone! Ma comme, già te sie ascurdate?». O’ giovene arrummanette perpliesso, ma pe’ quanno se sprimmesse le cirvella, nun s’arricurdava dove a chill’ommo l’avissa pututa canoscere. Alliora ‘o signore vestuto e’ janco, cu ll’uocchie ‘ncavate e na faccia senza sprissione, dicette: «Dduje mise fa, rint’ alli Funtanelle, fuje ra te ‘nvitato allu matrimmonio tuojo, t’arricuorde? ‘Nce steva pure la ‘nnammurata toja! Me facisteve chella resata ‘nfaccia, t’arricuorde?». A chesti parole, lo scanasciuto s’araprette nu poco la cammisa re lu vistito janco, pe’ fa vere’ comma steva cumbinat’ ra sotta. ‘O sposo, verenne chella ca ‘nce steva ra sotta all’abbeto re lo scanasciuto, l’ascettene ll’uocchia a’ fora, le pigliaje na mossa, se facette rapprimma russe ‘nfaccia e appoje janco comm’a neve, e ddint’a chillu stesso mumiento o vvi’, se schiantaje ‘nterra sticchito ch’era muorto. Se facett’a folla ‘ntuorno. Ll’ommo vestut’e janco scumparette cu na resatella ra fare raggilare ‘o sanghe rit’e vene. Fuje accussì ca ‘o sposo passaje ra fistiggiato a cumpianto, ammenta ‘a sposa, abbandunato subbeto ‘o vistito janco pe’ llu nire, facette ‘a chillu juorno na faccia ‘mpesa ca nun ve rico, e nun rerette cchiù. Pe’ chesta rice lu ritto ca rire bbuono chi rire p’urdeme.
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TRADUZIONE DALLA LINGUA NAPOLETANA ALL’ITALIANO
Dovete sapere che giù alle Fontanelle si scende col cuore in mano e con la fede. Chi molesta le anime del Purgatorio passa guai neri! Pensate che due fidanzati, prima di sposarsi, andarono al Camposanto delle Fontanelle, e quando si trovarono davanti allo scheletro del Capitano, il giovanotto, per fare lo sbruffone davanti alla sua ragazza, disse: “A questo qua, lo vedi, lo invitiamo al nostro matrimonio, e detto questo, scoppiarono entrambi a ridere. Il giorno dello sposalizio giunse: tutti i convitati mangiavano e bevevano nella trattoria, quando all’improvviso si presentò un signore alto, distinto, con una faccia scura, tutto vestito di bianco: sembrava un capitano di mare, ma nessuno lo conosceva, nessuno sapeva dire chi mai fosse. Costui era apparso improvvisamente sull’uscio della porta d’ingresso e, senza guardarsi intorno, si era fatto avanti, aveva attraversato risoluto la sala della trattoria ed era andato diritto diritto davanti agli sposi come per salutarli. Lo sposo, vedendosi davanti questa figura d’uomo, gli disse: “E tu chi sei, non mi sembra di conoscerti!». La figura allora rispose: “Non mi conosci? Ah, andiamo bene! ma come, già ti sei dimenticato?». Il giovane rimase perplesso, ma per quanto si sforzasse, non ricordava dove avesse potuto conoscere quell’uomo. Allora, il signore vestito di bianco, con gli occhi incavati e una faccia senza espressione, disse: “Due mesi fa, alle Fontanelle, fui da te invitato al tuo matrimonio, ricordi? C’era anche la tua fidanzata! Mi faceste quella risata in faccia, ricordi?». A queste parole, lo sconosciuto aprì un poco la camicia del suo vestito bianco per mostrare quale fosse la sua reale condizione al di sotto dell’abito da cerimonia. Lo sposo, nel vedere quello che c’era sotto l’abito dello sconosciuto, strabuzzò gli occhi, gli prese un colpo, si fece dapprima rosso in viso poi bianco come la neve, e in quello stesso momento, vedi, stramazzò a terra morto stecchito. Si fece una gran folla intorno a lui. L’uomo vestito di bianco disparve con una risatina sinistra da far raggelare il sangue nelle vene. Fu così che lo sposo passò dalla condizione di festeggiato a quella di compianto, mentre la giovane sposa, abbandonate subito le vesti bianche per le nere, assunse da quel giorno un’espressione così triste da non potersi dire, e non rise mai più. Per questo riferisce il detto che ride bene chi ride ultimo.
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COME SI MORIVA UN TEMPO
Quando un uomo sentiva che era giunto il tempo di dimenticare il mondo e di rivolgere la mente alla sua anima e a Dio, egli recitava, come era da sempre avvenuto sin dal Medioevo, la preghiera penitenziale preceduta e seguita dal Pater Noster e dall’Ave Maria, la quale si componeva di due parti, il Mea Culpa e la Commendacio Animae. Il Mea Culpa veniva recitato con queste parole: «Signore ‘nniputente et climente, me pente maramente pe’ toja razia re li piccata meja, ra mme accummise senza riflissione cu lli parole et lli aziune, pe’ mmea sclusiva et grandessima curpa, tistimmonie la bbiata Virgine Maria, ‘o bbiate Michaele Arcagiele, ‘u bbiate Giuvianne Baptiste, li sante apuostele Pietre et Pavule et tutte li avetre Sante re lu Paravise» [Dio Onnipotente e clemente, mi pento amaramente per tua grazia dei miei peccati, da me commessi senza riflessione con parole ed opere, per mia sola e grandissima colpa, testimoni la beata Vergine Maria, il beato Michele Arcangelo, il beato Giovanni Battista, i santi apostoli Pietro e Paolo e tutti gli altri Santi del Paradiso]. Si trattava di una forma abbreviata del futuro confiteor (confessione solenne al Signore celeste) introdotto dal Concilio Vaticano II (1962-65) con la riforma liturgica della Chiesa cattolica, da recitarsi ad alta voce, con le mani giunte e levate verso il cielo (oggi si adotta la postura dell’orante, o piuttosto del penitente, con le mani sollevate e i palmi rivolti verso nessuna immagine sacra, bensì verso il cielo, per meglio evidenziare la disposizione d’animo del penitente a ricevere l’atto di grazia divino). La seconda preghiera, cioè la commendacio animae (la riconsegna dell’anima), era un’antichissima prece mutuata dagli ebrei della Sinagoga. A tal proposito, a testimonianza della stretta convivenza originaria delle tradizioni ebraica e cristiana, va evidenziato che non mancò a Napoli una comunità israelitica, la quale ebbe in antico come maggiore centro di riferimento l’antichissima sinagoga di Cimitile, presso Nola, la quale era ancora attiva nel V secolo d.C., e sulle cui rovine, inserite all’interno di un vasto complesso paleocristiano, sorse poi La Basilica dei Martiri. Non è al riguardo da considerarsi del tutto casuale il fatto che l’odierna Sinagoga, fondata nel 1864, sia situata in via Cappella Vecchia, nel centralissimo quartiere di S. Ferdinando, nella Napoli storica, in prossimità di Piazza dei Martiri. In francese, dal XVI al XVIII secolo, queste preghiere erano dette recommendaces (riaffidamenti), in napoletano Atte re recunsegna (Atti di riconsegna) o semplicemente La Recunsegna (rell’annema), La Riconsegna (dell’anima): «Patre overo, ca giammaje tu miente, Tu c’arrechiammaste a Lazzare ra li muorte, Tu ca sarvaste a Davvede ra li liune, sarva st’annema meja ra tutte li piricale … » [Padre vero che mai non menti, Tu che richiamasti Lazzaro dai morti, Tu che salvasti Davide dai leoni, salva l'anima mia da tutti i pericoli... ].
L’orazione penitenziale era recitata ai fini dell’assoluzione, che veniva impartita dal curatore d’anime, ossia dal prete, il quale leggeva i salmi, il Libera, incensava il corpo e l’aspergeva con acqua benedetta, recitando in forma solenne il versetto 9 dal salmo 51 del Cantico di Davide penitente, che dice: ‘miserere mei Domine, asperges me hysopo et mundabor, lavabis me et super nivem dealbabor’ [Abbi pietà di me, Signore; aspergimi con l’issopo e sarò mondo; lavami, e sarò reso più bianco della neve’]; un rituale che era poi ripetuto sulla salma al momento della sepoltura e che era chiamato absolutio ad tumulum (assoluzione presso il tumulo), in napoletano ‘urdema cunsegna’ (ultima consegna). L’assoluzione presso il tumulo era impartita sia alla salma che alla sepoltura cui era concesso di ospitare il corpo affidato alla sua custodia. Il rito era così chiamato non solo perché il corpo veniva in tal modo consegnato al suo ultimo domicilio, ma anche perché questo compito era implicitamente affidato dal defunto alla pietà dei viventi. Tuttavia, quando un uomo sentiva prossima la sua fine e si trovava nell’impossibilità di ricevere l’assistenza spirituale di un curatore d’anime, ovvero il conforto di un compagno o di chiunque fosse disposto ad assisterlo durante il trapasso, egli poteva recitare anche da solo, in raccoglimento, l’orazione penitenziale, la quale poteva anche avere forma personalissima. Chi moriva senza gli ultimi conforti, e quindi senza l’assoluzione, veniva considerato come morto in stato di disperazione interiore. L’atto penitenziale costituiva però una pratica totalmente laica, alla quale il rito ecclesiastico veniva solo a sovrapporsi. Di conseguenza, nessun morente poteva essere certo dell’assoluzione divina. L’assoluzione religiosa conferiva esclusivamente la serenità della conformità ai canoni della Chiesa, ma l’assoluzione terrena poteva anche venire amministrata come un atto di pietà da qualsiasi persona che assistesse il morente, il quale poteva così lasciare il mondo col sentimento di essere in pace con gli uomini. L’extrema unctio era invece riservata ai chierici e ai monaci, e veniva amministrata con l’olio in forma solenne in chiesa. Così morivano a Napoli i principi, i cavalieri, i prelati, i monaci, i popolani dei centri cittadini e i contadini al di fuori delle mura della città, dai tempi del Ducato fino ai primi del Novecento, e con qualche traccia fino agli anni Sessanta. Chi si approssimava alla morte rimaneva padrone della sua volontà fino all’ultimo barlume di coscienza. D’altra parte la morte destava sempre attenzione, mai indifferenza, al punto da divenire uno spettacolo cui si poteva assistere liberamente, anche recandosi presso le abitazioni altrui, ossia lì dove si era venuti a sapere che qualcuno era stato visitato dalla morte. La camera del moribondo si trasformava allora in un luogo pubblico. Tutti vi potevano accedere per vedere l’agonizzante nei suoi ultimi momenti di vita e per immedesimarsi rispettosamente nella sua condizione, che veniva ritenuta uno stato da seguire con raccoglimento. C’erano i familiari dell’agonizzante e tutti i parenti, compresi i bambini; c’erano gli amici, i conoscenti e la gente del quartiere. Chi toccava il moribondo, anche per un momento soltanto, toccava un uomo che stava sperimentando l’emozione del passaggio nel sacro ed imperscrutabile regno dell’aldilà. Era questo il momento per qualche familiare affezionato di avvicinarsi all’orecchio del moribondo per sussurrargli di ricordarsi di lui nella sua nuova dimora. La morte era un fatto sociale e pubblico, tanto che alla fine del XVIII secolo i medici, che allora andavano scoprendo le prime norme d’igiene, deploravano questa usanza di affollare le camere degli agonizzanti. Ancora nella prima metà del XX secolo, non era raro che chi incontrasse per strada il prete che portava il viatico, accompagnato dal chierichetto col turibolo e l’involto dei paramenti sacri e da qualche familiare del moribondo, si unisse a questo piccolo corteo per entrare al suo seguito nella camera di chi stava per morire. Il moribondo, che si era già da tempo preparato con calma al suo destino, e che aveva già diviso i suoi averi in un testamento, che era orale presso i ceti più poveri, nei suoi ultimi giorni di vita era al centro dell’attenzione di tutti. Familiari, amici, conoscenti, estranei si stringevano intorno al morente per confortarlo, ed egli presiedeva questo cerimoniale senza differire la resa dei conti, preparandovisi in silenzio, spirando poi sereno, come se avesse dovuto soltanto trasferirsi altrove. Ma in un altrove da dove avrebbe potuto continuare ad essere informato sulle vicende dei vivi e a rimanere in contatto con loro. Tutto ciò che poteva portare con sé erano la sua personale esperienza del mondo terreno e il suo affetto per i cari che avrebbero continuato a vivere su questa terra, e presso i quali lasciava una parte di sé stesso. Era questa ‘la Bonne Mort’ (a Bbona mort’).
L’aspetto più considerevole di questi fatti di costume legati ai riti mortuari, è che essi non solo venivano compiuti con naturalezza e semplicità, ma non avevano il carattere eccessivamente tragico e segreto dei nostri giorni. Anche nel pianto e nella disperazione dei congiunti per il dolore del distacco da un loro caro, le emozioni rimanevano controllate e socializzate, e il dolore non arrivava ad inibire le manifestazioni spontanee di chi era stato colpito dal lutto, né a determinare un comportamento di chiusura nei riguardi di quanti desiderassero prendervi parte.
Dopo l’esalazione dell’ultimo respiro, il corpo esanime e freddo veniva visitato dal medico, che sin dall’antichità accertava l’assenza del respiro, del battito cardiaco e il sopraggiungere del rigor mortis per confermare la condizione di morte. Dopo di ciò tutti si allontanavano dalla camera del defunto, mentre le donne della famiglia, spesso aiutate da una vicina di casa o da qualche comare, si accingevano a svestire il morto per detergerne il corpo e aspergerlo con unguenti profumati, e infine rivestirlo di una lunga camicia bianca di lino e ricomporlo supino, con le mani incrociate sul petto, nel suo giaciglio, che nel frattempo era stato rifatto alla meglio, voltando delicatamente il corpo del defunto su di un fianco e sull’altro, come fosse stato quello di un malato. Fatto ciò i visitatori potevano rientrare nella camera, dove le prefiche e le comari davano inizio con i familiari al pianto rituale che accompagnava la recita del rosario tra le candele accese. Qualcuno dei vicini preparava qualcosa da mangiare e lo offriva ai familiari del morto, imbandendo con semplici cose il tavolo della casa. Con l’approssimarsi della sera, i visitatori via via tornavano alle loro abitazioni, le prefiche e le comari smettevano di piangere e se ne andavano, e la famiglia, lasciata sola, si raccoglieva per l’ultima volta intorno al letto del morto. Infine si procedeva ai preparativi per la notte. Si poggiava sul comodino accanto al defunto un bicchiere contenente dell’acqua e vicino un pezzo di pane in segno di ospitalità per l’angelo che nottetempo sarebbe calato nella camera ad aiutare l’anima del defunto, ancora legata alle mura domestiche, a ritrovare la via del cielo. L’acqua era il simbolo dell’elemento primo della vita, e richiamava la scaturigine, mentre il pane era il simbolo del più semplice prodotto lavorato dalla mano dell’uomo. I due simboli insieme richiamavano il concetto di creazione e di generazione, nonché quello di azione divina e di attività umana (intesa come attività trasformatrice), tra loro connessi dalla nozione di Natura providens (Natura provvidente), a sua volta richiamante quello di divina Provvidenza. Le due specie dell’acqua e del pane erano dunque un chiaro riferimento al profondo credo secondo cui “Dei providentia mundus administratur” (il mondo è governato dalla divina provvidenza). Se la casa era composta di più camere, il morto veniva lasciato in compagnia di pochi, altrimenti, se la stanza era l’unica della casa, si chiudevano le cortine intorno al letto, e i componenti della famiglia si disponevano alla veglia funebre, anche alternandosi tra loro al fine di concedersi un breve riposo che li avrebbe messi in condizione di affrontare le incombenze del giorno successivo. Al mattino cominciavano ad entrare nella casa prima le comari, che portavano qualcosa da mangiare per i familiari del defunto, poi i primi vicini, poi i parenti, tra cui quelli venuti da fuori città, e infine amici, conoscenti ed anche persone sconosciute alla famiglia. Più tardi la piccola camera ardente cominciava a riempirsi di corone, cuscini e fasci di fiori, mentre all’esterno dell’abitazione, se la famiglia apparteneva ad un ceto più agiato, erano sistemate grosse ghirlande di fiori, le quali sarebbero state sistemate su alti appoggi intorno al carro funebre. Nella tarda mattinata o nel primo pomeriggio arrivavano i becchini, ‘e schchiattamuorte’ (dal fr. ‘les echarnemorts’, gli scarnamorti’), così detti per la delicatezza con la quale erano noti solessero maneggiare i corpi dei morti, che letteralmente si schiattavano, cioè si schiantavano, quando erano deposti nella bara). In principio i becchini erano mandati da congreghe o confraternite, poi in seguito, già dagli inizi del XX secolo, da un’agenzia di pompe funebri. La camera allora veniva sgombrata di tutte le composizioni floreali e la salma veniva sollevata dal suo giaciglio e sistemata nella cassa (in realtà vi era fatta cadere, perché i bordi della bara impedivano di adagiarla, ma si faceva così anche affinché la salma prendesse il suo garbo nella stretta cassa). I familiari scoppiavano in un pianto amaro e incontenibile quando udivano, dall’esterno della camera, il tonfo del corpo che pesantemente prendeva contatto con la cassa di legno, e invocavano, con la voce strozzata e il cuore traboccante di dolore, il nome del defunto, il cui volto non avrebbero mai più rivisto per il resto della loro vita. Il carro, in attesa all’esterno della casa, ricevuto il suo carico, si avviava lentamente preceduto dal prete e da due chierichetti. Nel Medioevo, fino al XVIII secolo, la cerimonia, ereditata da un passato pagano a lungo conservatosi nella tradizione popolare e nel folklore, era laica; non c’erano religiosi nel corteo, che seguiva un determinato itinerario e osservava determinate tappe o stazioni. Si costituiva così il corteo funebre, i cui passi erano scanditi dai rintocchi a lutto delle campane della chiesa, e così si giungeva fino al camposanto. Al mesto corteo si univano molte persone del quartiere, i passanti si fermavano sollevando la mano e volgendo il palmo verso la carrozza che passava, trattenendosi in un rispettoso cenno di ossequio, le donne si segnavano col segno della croce, mentre gli esercizi commerciali socchiudevano i battenti al passaggio del carro trainato da robusti palafreni col capo impiumato. Seguiva infine l’inumazione, che era di brevissima durata, cui facevano seguito le manifestazioni di cordoglio di parenti, amici e conoscenti della famiglia.
La morte era oggetto di un profondo rispetto.
I LUOGHI DI SEPOLTURA
La conviveza dei vivi con i morti è un aspetto del costume che si è imposto in Occidente a partire dal Medioevo, e che è durato fino a tutto il XIX secolo. Nel mondo antico, nonostante la familiarità con la morte, i morti erano tenuti separati dal mondo dei vivi e venivano sepolti in necropoli extraurbane, le quali accoglievano, senza distinzione di razza e di ceto, cristiani, ebrei e pagani. A Roma, la legge delle Dodici Tavole proibiva di seppellire in urbe, e i cimiteri erano situati ai margini delle strade, fuori dalle mura della città. Il Codex Theodosianus, emanato nel 439, ribadiva lo stesso divieto. Uno degli scopi dei culti funebri era quello di impedire che i mani, le anime dei morti, tornassero a turbare i vivi. Nel Medioevo questa situazione cambia radicalmente con l’affermarsi del culto dei martiri; un culto originatosi in Africa, dove era praticato da eremiti e anacoreti cristiani nel deserto della Tebaide, e che si diffuse nel mondo romano sin dal II-III secolo dell’era volgare, in coincidenza con le grandi persecuzioni dei cristiani. Col diffondersi del cristianesimo, la gente del popolo cominciò a ricercare la vicinanza del defunto, specialmente del santo martire a scopo protettivo. Così, nelle necropoli extrurbane, le sepolture dei martiri attirarono le sepolture di gente d’ogni condizione, perché in tal modo si credeva che dopo la morte la persona rimanesse al riparo dal male e dalla irreparabile rovina rappresentata dall’idea del decadimento e dell’annientamento dell’anima, e quindi della sua morte definitiva, segnata dal passaggio attraverso le estreme e desolate plaghe dell’inferno per estinguersi come fatua fiammella nel nulla del non-essere. Via via, sulla confessione del santo fu costruita una basilica servita da monaci, in prossimità della quale i cristiani desideravano venire sepolti. Contemporaneamente, però, le città si ingrandivano e si estendevano, dilatando i loro confini e dando luogo a quel fenomeno di inurbamento che vide man mano inglobati in esse i pagi e i vici limitrofi alla città, e poi i centri abitati rurali, e con essi le antiche necropoli extraurbane. Con l’andare del tempo venne così cancellandosi ogni distinzione tra la città, in cui era sempre vietato seppellire i morti, e i suoi sobborghi, dove erano i luoghi di sepoltura ad sanctos (in prossimità dei santi), e di conseguenza venne anche cancellata l’antica distinzione tra abbazia cimiteriale (nap. ‘abbazeja cimmitiriale’) e chiesa cattedrale (nap. ‘icchiesia cattidrale’). I campi di sepoltura, ai quali era annessa una chiesa, si trovarono così inclusi all’interno dei quartieri popolari. La chiesa parrocchiale non era quindi soltanto l’edificio riservato all’ufficio divino. Col nome di chiesa si intendeva infatti un’unità minima costituita da navata, campanile e cimitero. Nel cortile antistante la chiesa, l’atrium, si davano riti solenni all’aperto accompagnati da processioni e sfilate di carri con le immagini dei santi, che di lì partivano per procedere attraverso la città, e poi rientrarvi. I morti continuarono ad essere seppelliti nel cemeterium (gr. ‘cemeterion’, nap. ‘cemmeterio) ma questo non rappresentò più l’unico spazio di sepoltura, in quanto molti ricercavano una sepoltura in più stretta vicinanza col santo. Diversamente dagli Ebrei, che ponevano i luoghi di sepoltura, così come quelli riservati all’igiene, sempre a notevole distanza dalle cose sacre, affiché queste non potessero essere in alcun modo esposte a contaminazione, i cristiami cominciarono a seppellire in templo (in chiesa), intorno e contro i muri coperti all’esterno della chiesa, cioè in porticu, e intorno e contro i muri scoperti, ossia sotto le grondaie, sub stillicidio. A queste sepolture privilegiate si passava dopo il seppellimento in terra (ruoppo lu ‘nterramiènto), e perciò esse erano in realtà degli ossari. Nell’insieme, tali strutture costituivano l’ossarium commune (l’ossario comune), dove venivano trasferite le reliqua mortalia sicca, i resti mortali asciutti delle salme dopo il processo di trasformazione avvenuto nella terra, sia prelevandoli dalle sepolture singole, sia dalle grandi fosse comuni. Queste ultime erano larghe e profonde fosse, dette les fosses de les pauvres (nap. ‘li fuosse re li puovre’ le fosse dei poveri), vere e proprie fosse carnarie in cui venivano ammassati i cadaveri tolti dalle loro bare, e dove i corpi rimanevano, per tutto il tempo della decomposizione dei tessuti molli, semplicemente cuciti nei loro sudari. Quando una fossa si riempiva del tutto, la si chiudeva, e una vecchia si riapriva, la quale poteva essere riutilizzata dopo il trasferimento negli ossari dei resti disseccati in essa contenuti. I corpi venivano dunque prima interrati, e successivamente i resti asciutti passavano negli ossari. I corpi di persone di più agiata condizione e di alte dignità, quali quelli di principi, cavalieri, nobildonne, venivano interrati sotto le lastre del pavimento della chiesa, ma anch’essi subivano lo stesso trattamento di tutti gli altri corpi, senza alcuna distinzione, sicché, dopo un certo tempo, prendevano essi pure la via degli ossari. Con l’espressione sepulturae in atria (sepolture negli atrii), si designavano nel Medioevo quelle sepolture che venivano praticate in una parte del cimitero, e precisamente quella costituita dai porticati che correvano intorno ai muri della chiesa, i quali erano adibiti ad ossuaire (nap. ‘ussuarie’) ed erano per iperbole chiamati les charniers (nap. ‘li carnaie’ i carnai). Sotto le arcate dei porticati, tutto intorno all’atrio, cioè al cortile rettangolare della chiesa, gli ossari facevano bella mostra di sé, ricoprendo interamente tutti i muri situati all’esterno dell’edificio destinato al culto. Lungo tali muri si trovavano le nicchie in cui erano collcati, secondo un ordine studiato, teschi, tibie, clavicole, gabbie toraciche, femori, omeri, ulne, bacini, ecc. La ricerca dell’effetto visivo e decorativo ottenuto con l’accurata disposizione delle ossa, sfocerà nell’iconografia barocca dell’arte macabra, che assunse dimendioni grandiose dal XVI fino al XVIII secolo, come si può vedere a Roma nella chiesa dei Cappuccini intitolata all’Immacolata, in via Veneto, con la Cripta della Resurrezione, la Cappella per la Messa, la Cripta dei Teschi, la Cripta dei Bacini, la Cripta dei Femori, la Cripta dei Tre scheletri, in cui tutte le superficie sono finemente decorate con ossa umane raccolte da circa 3700 corpi, le quali furono utilizzate come pezzi da cosruzione e tasselli musivi per le numerose macabre composizioni che in questo luogo si possono ammirare, e che il marchese de Sade, profondamente suggestionato, non mancò entusiasticamente di descrivere; e così anche nella chiesa di Santa Maria dell’Orazione e della Morte, che si trova alle spalle di Palazzo Farnese, dove nella cripta sotterranea, un tempo cimitero della confraternita, ogni suppellettile e ogni decorazione (lampadari, sculture, credenze, candelabri, altari, volte, ecc.) è realizzata con ossa e ossicini umani prelevati dalle circa 8000 salme che la compagnia della morte raccolse nell’ossario, inumò e sottopose a trattamento per la conservazione e l’utilizzazione.
Nei cimiteri, ormai interamente inglobati nel contesto cittadino, ogni volta che si rendeva necessario liberare delle fosse, i resti mortali in esse contenuti venivano sottoposti al procedimento di pulitura e di conservazione negli ossari, all’interno dei quali gli ossami venivano stipati e disposti con ordine producendo di per sé un effetto scenografico di grande impatto visivo. Nessuno era all’oscuro del trattamento riservato ai corpi dei defunti e del fatto che un giorno tutte le ossa sarebbro state mescolate senza riguardo per la loro appartenenza a questo o quel corpo, e tuttavia tutti desideravano di venire sepolti nel sacro recinto del tempio. Non importava che cosa la Chiesa facesse del corpo, ciò che interessava è che esso trovasse asilo in un luogo protetto, consacrato e prossimo alla confessione del santo. Nei campi appartenenti alla chiesa, che in principio erano estesi, e che erano usati come asilo per i morti, cioè come cimiteri, si cominciarono a costruire edifici per le diverse esigenze della parrocchia, i quali poi divennero luoghi di ospitalità e abitazioni di proprietà della curia. Si formarono così delle insulae, ossia dei piccoli quartieri isolati all’interno della città, dove gli abitanti godevano di particolari privilegi fiscali e demaniali. Le vaste navate dell’abbazia cimiteriale divennero luoghi d’incontro e di riunione per i cittadini, così come gli spazi esterni alla chiesa, che assunsero la stessa funzione che in passato avevano avuto l’agorà presso i Greci antichi e il foro presso i Romani, qualcosa di molto simile al corso principale e alle piazze delle nostre città. La chiesa, che era per antonomasia il refugium peccatorum, divenne con tutti i suoi spazi esterni il rifugio non solo dei morti, ma anche dei vivi; un luogo dove le istituzioni civili non avevano alcun diritto di esercitare la loro autorità. Venne così definendosi la nozione di azylus circum ecclesiam, ossia di ricovero nei luoghi prossimi alla chiesa e soggetti alla sua giurisdizione. Gli spazi esterni alla chiesa, in cui erano situati i sepolcreti, divennero luoghi d’incontro, di riunione, di commercio, di mercato. A Parigi, nel Cimetiere des Innocents, si svolgevano attività economiche e commerciali, e gli scrivani offrivano i loro servizi prendendo posto dietro i loro banchetti di legno a ribaltina, muniti d’una penna d’oca, di calamaio con inchiostro, di una risma di carta per scrivere, di polvere assorbente, di ceralacca, di nastri e sigillo. C’erano banchi per la vendita di merci e piccole botteghe di artigiani; si vendevano merci di ogni genere e si davano rappresentazioni teatrali. Gli archi degli atrii erano il posto preferito delle cucitrici, dei librai, degli scrivani, dei macellai, dei pescivendoli, dei venditori di stoffe, degli erbivendoli, mentre negli spiazzi si esibivano giocolieri, saltimbanchi, musicanti, predicatori, ciarlatani e così via. E questa era press’a poco la situazione dei cimiteri in tutte le città d’Eurpa. Di tanto in tanto spuntava dalla terra un femore, un teschio, una tibia, e ciò impressionava i frequentatori di questi mercati più dell’idea della propria morte, ma in fondo era un’impressione anche ricercata. Il terrore recava in sé un elemento di curiosità, di sensualità, di morbosa voluttà; l’idea della morte, e di una morte così presente nel quotidiano, perché la vita non era affatto facile e la mortalità elevata, legava sì i viventi ancor più alla vita, che era vivace, colorita, attaccata alle cose, ma a sua volta l’idea della vita sfociava in un sentimento indefinito di tenerezza, di mistica contemplazione intorno al mistero del creato e di riflessione dolente intorno alla condizione umana: nel sentimento di una realtà e di una verità nascoste e sconosciute, ma che in qualche modo erano capaci di mostrare un quid della propria essenza attraverso i reconditi anditi del pensiero, della meditazione, del cuore e dei sogni personali e collettivi. L’infinito era più nel pensiero che nelle concezioni aristoteliche sulla forma dell’universo. Bisognerà aspettare il XX secolo perché la morte faccia davvero paura, allora si eviterà accuratamente ogni occasione che la ricordi, e si cesserà non solo di rappresentarla, ma perfino di rappresentarsela.
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